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Repubblica-La grande forza tranquilla-E.Scalfari

SI ASPETTAVA di vedere se lo sciopero generale proclamato isolatamente dalla Cgil e le manifestazioni che l'hanno accompagnato in 120 città avrebbero avuto successo oppure sarebbero stati un flop. Se...

19/10/2002
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la Repubblica

SI ASPETTAVA di vedere se lo sciopero generale proclamato isolatamente dalla Cgil e le manifestazioni che l'hanno accompagnato in 120 città avrebbero avuto successo oppure sarebbero stati un flop. Se cioè il sentimento pubblico dei lavoratori di opporsi con gli strumenti a loro disposizione alla politica economica del governo fosse ancora pugnace dopo i grandi appuntamenti del 23 marzo (Cgil al Circo Massimo) e del 14 settembre (girotondisti in Piazza San Giovanni), iniziative tra loro distinte ma intimamente connesse perché espressioni di un comune sentire dell'opposizione sociale e politica.
Si voleva infine comprendere quale fosse il rapporto effettivo tra l'opposizione di base e la sua rappresentanza parlamentare, validamente combattiva nelle aule della Camera e del Senato eppure frantumata in gruppi e gruppetti arroccati a difesa del proprio territorio e delle proprie particolari identità.
Ebbene il flop non c'è stato, il successo si può valutare soddisfacente anche se non travolgente: 250 mila persone in piazza a Milano, 200 mila a Torino, 200 mila a Firenze, 150 mila a Roma, altre decine di migliaia a Genova, Palermo, in Calabria, a Napoli, a Catania, a Bologna, e in 100 altre città; milioni, dice la Cgil, in tutto il paese e altre centinaia di migliaia organizzate separatamente dai Cobas e dai no global .
L'adesione allo sciopero è stata mediamente del 50 per cento con punte particolarmente elevate nelle imprese metalmeccaniche, nelle banche, nelle ferrovie, nei trasporti urbani, negli aeroporti e in tutta la vastissima area delle aziende che lavorano in appalto delle imprese maggiori, le più minacciate dalla crisi che ha investito la Fiat e i suoi immediati dintorni.
In tempi di crisi e di flessione della domanda di solito la rabbia e la protesta cedono il posto alla paura e alla rassegnazione, il livello della combattività operaia si abbassa mentre è alto nelle fasi di espansione economica e di elevati profitti, quando si tratta di spartire tra i vari fattori la nuova ricchezza prodotta
La grande forza tranquilla che è scesa in piazza con la Cgil

I destini Fiat vanno inevitabilmente incontro alla Gm: e il compratore vuole trovare il lavoro sporco già fatto. Così l'unità sindacale si giocherà sul tema degli esuberi
La risposta data ieri dai lavoratori è significativa anche perché è stata ottenuta tra le difficoltà I leader Cisl e Uil dovevano evitare commenti al fiele su questa protesta
Se al referendum dovesse vincere il no per un pugno di votanti l'Unione si troverebbe nel mezzo di una crisi senza precedenti

Si poteva dunque ragionevolmente prevedere che lo sciopero e le manifestazioni di ieri avrebbero registrato stanchezza e smarrimento. Così non è stato. Ci voleva l'acidità del segretario della Cisl e la futile rancorosità di quello della Uil per vantare come propria vittoria l'insuccesso inesistente dell'iniziativa della Cgil; coloro che hanno trasformato la caccia agli errori di Cofferati e ora di Epifani in un esercizio full time (e sono legione nella politica e nel giornalismo italiano) saranno ora in grado di misurare quali siano in tutta questa triste vicenda dello scontro interno al sindacato le rispettive responsabilità, il peso degli errori commessi dagli uni e dagli altri e lo strascico di veleni che ne è derivato e che tuttora ne inquina i rapporti.
L'unità di azione tra chi rappresenta identici interessi è sempre un gran bene per i rappresentati; non però l'unità a tutti i costi e mai comunque la svendita di quegli interessi sugli altarini degli apparati di sindacato e di partito. Da questo punto di vista la risposta dei lavoratori data ieri nelle piazze e nelle aziende è stata netta e tanto più significativa perché ottenuta in condizioni di grave difficoltà, con buona pace di Pezzotta e di Angeletti che hanno perso una buona occasione per astenersi dal commentare col fiele in bocca un momento di lotta dei lavoratori italiani.
Bene hanno fatto Fassino e D'Alema a partecipare in prima fila ai cortei di Torino e di Napoli: in casi come questi il luogo acconcio per i leader del maggiore partito della sinistra non poteva che essere quello, insieme alla loro gente. Rutelli ha un diverso sentire ed è comprensibile quindi che si sia esentato perché ciascuno è libero di decidere per sé senza inutili ipocrisie.

* * *
E dopo? L'agenda che sta dinanzi al movimento dei lavoratori e alle forze politiche e sindacali che lo rappresentano è fitta di appuntamenti: la crisi della Fiat, i rinnovi di alcuni importanti contratti, gli incentivi al Mezzogiorno, la legge finanziaria, le difficoltà dell'economia italiana nel quadro negativo di quella europea e mondiale. Sono problemi strettamente interconnessi, cause ed effetti l'uno degli altri, reciprocamente interagenti.
La ripresa dell'economia mondiale è ora collocata, nelle previsioni dei "guru" americani, nel secondo semestre del 2003: si scontano per quell'epoca i positivi effetti della caduta di Saddam Hussein, comunque ottenuta, e un protettorato americano su quel paese e soprattutto sul suo petrolio.
Può darsi che andrà così, ma difficilmente ne beneficerà l'Italia. La nostra politica di bilancio sarà infatti alle prese con la scadenza delle entrate e delle minore spese una tantum per le quali bisognerà trovare nuove e diverse fonti di copertura; con gli impegni a quel punto non più prorogabili per le riforme della scuola e della sanità e con l'avvio delle grandi opere promesse da Berlusconi.
Infine col secondo modulo di riduzione delle imposte, il più oneroso, quello che allevia in maniera molto rilevante i redditi medio-alti.
Si troverà altresì alle prese con gli obblighi europei di riduzione del deficit e con un andamento di cassa che stima a zero il gettito dell'Irpeg per tutto il prossimo anno.
La finanziaria in discussione non è sbagliata tecnicamente ma politicamente: taglia dove avrebbe dovuto dare per sostenere la domanda e concede dove poteva rinviare le concessioni a miglior tempo. Sbagli che stanno venendo al pettine già ora ma che peseranno soprattutto sulla finanziaria 2004 e sulla cassa 2003.
* * *
Su questo quadro già abbastanza fosco è esplosa la crisi Fiat, che sembra aver colto di sorpresa il governo (e anche quelli di centrosinistra che lo precedettero), la Confindustria, i sindacati, le autorità locali (Comune di Torino e Regione Piemonte); ma soprattutto sembra aver colto di sorpresa lo stesso management della Fiat, i suoi azionisti di controllo, le banche principali finanziatrici. Possibile? Nessuno si era accorto di quanto accadeva al Lingotto?
Per quanto riguarda i governi è possibilissimo: vivono ormai tutti alla giornata non vedendo una spanna più in là del naso dei loro ministri. Prodi concesse la rottamazione (una cura peggiore del male) pensando che si dovesse fronteggiare una transitoria crisi della domanda. Lo stesso giudizio di incapacità previsionale vale per gli enti locali. Il sindaco di Torino crede ancora oggi che l'automobile italiana resterà nella sua città. Più che una previsione è un atto di fede e perciò lasciamoglielo credere.
Confindustria è quello che è: una lobby che ha incasinato il paese con l'articolo 18, non ha capito nulla di quanto sarebbe avvenuto, ha confortato senza riserve le spericolatezze di Tremonti salvo fare un'inversione a U nelle ultime settimane che l'ha portata (udite udite) a ridosso delle posizioni della Cgil. Figuriamoci se era gente da accorgersi della crisi Fiat, a parte il fatto che Torino è sempre stato un regno a se stante che si presumeva sapesse benissimo badare ai casi propri.
Restano i diretti interessati: le banche finanziatrici, l'azionista di controllo, il management.
La crisi cominciò in verità nel '97, si aggravò negli anni successivi; l'accordo con la General Motors fu voluto da Gianni Agnelli proprio come paracadute di ultima istanza. Collocatane l'apertura nel 2004, gli anni di mezzo avrebbero dovuto servire al lancio di nuovi modelli e al taglio di spese, investimenti e asset non strettamente necessari.
Purtroppo non è stato così. Probabilmente il management non risultò adeguato. Sicuramente furono fatti investimenti sbagliati (soprattutto in America Latina). Infine l'azionista fu tentato da diversificazioni certamente utili per la holding del gruppo ma non per il core business dell'automobile.
Il caso Edison è uno di questi ed è il più eloquente: i gruppi bancari furono impegnati nell'Opa, la Edf francese dette un contributo determinante, Torino restò seduto tra due sedie non avendo i capitali sufficienti a portare avanti il rilancio in grande stile della Fiat Auto e contemporaneamente ad entrare in forze nell'industria elettrica.
Le banche non capirono. Come diceva Raffaele Mattioli parlando della maggior parte dei suoi colleghi, "non sono banchieri ma soltanto bancari reggicoda del partito più forte in quel momento". Infatti sono quasi più i crediti in sofferenza che stanno scritti nei loro bilanci che quelli rapidamente esigibili.
La crisi Fiat si avvia inevitabilmente verso l'appuntamento con la General Motors. Tra oggi e il 2004 ci saranno licenziamenti e chiusure di reparti (se non di stabilimenti) in tutte le fabbriche del gruppo, senza di che il prezzo che la General Motors pagherà sarà vicino allo zero. È ovvio che governo, opposizione, sindacati, chiedano che non si pronunci neppure la parola "esuberi", ma è altrettanto chiaro che il problema è esattamente quello: il futuro compratore vuole trovare già fatto il lavoro sporco dello "snellimento" (chiamiamolo così) della Fiat Auto.
Il vero problema sul quale governo, sindacati e opposizione dovranno perciò concentrarsi è quello della formazione, delle tutele e del reinserimento al lavoro dei licenziandi Fiat e dei licenziandi dell'indotto; l'un per l'altro si tratterà nei prossimi due anni di non meno di 150 mila persone complessivamente: una mazzata quale non s'è mai vista in Italia dopo la crisi del 1932.
***
L'unità sindacale si rifarà inevitabilmente su questi problemi, non certo per la buona volontà di Epifani o di Pezzotta-Angeletti (figuriamoci). E si farà per la semplice ragione che l'economia non cresce (come invece prevedeva il Patto per l'Italia) e che la Fiat è ormai senza mercato (e questo il Patto per l'Italia non se lo immaginava neppure).
Lì si vedrà chi è per la difesa (purtroppo impossibile) dell'esistente e chi punterà invece su tutele differenziate estese a tutta la platea dei cittadini-lavoratori e appoggiate sui pilastri forti della scuola pubblica, della formazione, della sanità pubblica e della previdenza possibile ma certa.
Ci vorrebbe anche una politica industriale, ma questo sarebbe chiedere troppo ad un governo di venditori di tappeti.


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