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Repubblica-L'università a rischio

L'università a rischio ALDO SCHIAVIONE La trasformazione dell'università è uno dei fenomeni più importanti e significativi del cambiamento che, negli ultimi venti anni, ha ridisegnato...

17/09/2003
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la Repubblica

L'università a rischio

ALDO SCHIAVIONE

La trasformazione dell'università è uno dei fenomeni più importanti e significativi del cambiamento che, negli ultimi venti anni, ha ridisegnato il volto e l'anima della società italiana. È avvenuto nell'indifferenza quasi generale: un segno grave della fragilità e volatilità del nostro spirito pubblico.
Che questo mutamento contenga dentro di sé i rischi di un declino anche drammatico, è fuor di dubbio. Ed è altrettanto certo che, se ciò accadesse, la crisi trascinerebbe con sé l'intero Paese, perché la qualità degli studi e della ricerca è l'autentica frontiera dove si difende l'identità dell'Italia e si decide il suo futuro: una volta eravamo in pochi a dirlo; ora, per fortuna, cominciano a pensarlo in molti.
L'ultimo segnale d'allarme, arrivato in questi giorni dai documenti dell'associazione Trielle, presieduta da Umberto Agnelli, ci squaderna ormai ben note e tristi cifre: l'esiguità della spesa pubblica, che raggiunge solo i due terzi della media europea (0,8 del Pil), l'irrisorietà degli investimenti privati, la bassa produttività del sistema (anche se il problema non è solo di quantità). C'è n'è abbastanza per i pessimisti (più o meno interessati). Ma non ci stancheremo di ripeterlo: non siamo alla catastrofe. Il processo è ancora del tutto aperto: la riforma varata nella scorsa legislatura e portata avanti in quest'ultima contiene (ed era ora) importanti elementi positivi: si tratta di difenderli, radicarli e svilupparli con determinazione e fantasia, senza restare prigionieri di idoli e di preconcetti.
Un punto sul quale non si può transigere è quello dell'autonomia: una conquista recente, premessa indispensabile di ogni prospettiva di crescita e di rinnovamento, meritoriamente diventata una bandiera della Crui (l'assemblea che raccoglie i rettori di tutti gli Atenei italiani, e che il prossimo 23 settembre terrà a Roma una riunione importante). Sembra però, purtroppo, che si tratti di una conquista anche minacciata: su pressioni che si dicono provenire in particolare dal Ministero del Tesoro, gli aspetti finanziari dell'autonomia sarebbero sul punto di essere messi radicalmente in discussione, per riproporre, con l'alibi di una più efficace razionalizzazione contabile, una gestione centralistica della spesa. Se questo orientamento si consolidasse, e si traducesse in corrispondenti provvedimenti normativi, si sarebbe compiuto un passo indietro assai grave, di conseguenze difficilmente calcolabili. Ci auguriamo vivamente che il buon senso prevalga, e che la scarsità delle risorse disponibili - di per sé una distorsione da correggere, e non un dato neutro da esibire con indifferenza, come più volte non ha mancato di sottolineare lo stesso ministro Moratti - non serva da giustificazione per ulteriori guasti.
Certo, il principio dell'autonomia gestionale delle Università non va mitizzato, ma piuttosto adeguato alla realtà italiana, dove esso deve convivere con l'altro principio, non meno irrinunciabile, del carattere pubblico della grande maggioranza dei nostri istituti di educazione superiore. Ed è vero che, in questi anni, facendo più volte un uso improprio dell'autonomia, gli organi dell'autogoverno universitario (senati accademici, consigli di facoltà, ecc.) hanno consentito moltiplicazioni in taluni casi senza fondamento dei corsi di laurea e allocazioni non sempre felici delle risorse.
Ma da queste contraddizioni non si esce minando in modo sostanziale l'autonomia degli atenei. Piuttosto, bisognerà ulteriormente incoraggiarla, integrandola con sempre più forti elementi di competitività e di concorrenzialità fra le diverse sedi, in grado di correggere degenerazioni localistiche e corporative, arrivando a simulare un'autentica situazione di mercato, sia pure all'interno di un sistema in larga parte pubblico (questa conciliazione potrebbe diventare una peculiarità della nostra esperienza, in Europa e nel mondo).
In particolare, per avvicinarsi a un simile obiettivo, si dovrebbe lavorare a un meccanismo di valutazione delle attività scientifiche e didattiche non fondato essenzialmente sulle quantità (numero di iscritti o di laureati), ma sulla qualità (condizione delle strutture, servizi, livello della ricerca e dei trasferimenti di conoscenza), e, insieme, predisporre un circuito davvero efficace di incentivi e di penalizzazioni, che facendo leva su una distribuzione "meritocratica" di risorse aggiuntive, legasse nuovi investimenti ai risultati ottenuti, o comunque alla messa in campo di logiche "virtuose".
Un discorso a parte andrebbe poi fatto per quella che si è convenuto di chiamare "eccellenza", vale a dire la formazione delle élite intellettuali del paese: un compito senza del quale un'università non è degna di questo nome, e che è altra cosa rispetto al doveroso sviluppo di un'istruzione superiore di massa. Qui qualcosa si sta facendo negli ultimi tempi, ed è un segno importante: ma non sarebbe condivisibile legare il percorso di questa strada alla riproposizione di una pericolosa logica verticistica.


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