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Repubblica-I conti truccati sull'allarme pensioni-di E.Scalfari

CHE il "Welfare" delle pensioni europee debba essere profondamente riformato è convinzione generale: ci obbliga a farlo la demografia, il crescente numero di anziani e di vecchi e l'insufficiente and...

13/07/2003
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la Repubblica

CHE il "Welfare" delle pensioni europee debba essere profondamente riformato è convinzione generale: ci obbliga a farlo la demografia, il crescente numero di anziani e di vecchi e l'insufficiente andamento delle nuove nascite. In Germania il cancelliere Schroeder vi ha finalmente messo mano con l'appoggio della Spd, il suo partito socialdemocratico finalmente convinto nella sua interezza a sostenerne la necessità. In Francia, dove la sinistra è all'opposizione, il presidente del Consiglio, Raffarin, ha anch'egli portato avanti la riforma nonostante le imponenti manifestazioni di piazza della "gauche" e dei sindacati.
Da noi la situazione politica è notevolmente diversa: non solo vi si oppongono la Cgil e tutta l'opposizione parlamentare sia pure con diverse sfumature, ma anche i sindacati "trattativisti" (Cisl e Uil), la Lega e settori consistenti di An e perfino dell'Udc di Follini. Il segretario della Cisl, Silvano Pezzotta, sostiene che in Italia la riforma è stata già fatta nel '95 e ha dato buona prova rimettendo su basi solide il sistema pensionistico. Alcune (serie) difficoltà si preannunciano tra il 2013 e il 2030, dopodiché l'equilibrio sarebbe nuovamente garantito almeno fino alla metà del corrente secolo. Si tratterebbe quindi di affrontare a tempo debito le contromisure per superare l'ostacolo. Perciò nessuna urgenza attuale e se ne riparli tra nove anni.
Ma la Confidustria incalza giudicando il problema gravissimo e urgentissimo; le autorità economiche internazionali mettono fretta; il governo è incerto e diviso. Per quanto si riesce a capirne la riforma della riforma sarà ancora una volta rinviata di sei mesi, cioè dopo la fine del famoso semestre europeo di Berlusconi. Sono ormai infiniti gli appuntamenti rinviati al gennaio 2004: la vera verifica politica nella Casa delle libertà che andrebbe opportunamente ridefinita come la Casa delle risse; la "devolution" bossiana; i processi di Silvio Berlusconi; la legge Gasparri sul riassetto del sistema televisivo; le misure di finanza pubblica una volta esauriti tutti i condoni possibili e immaginabili; una nuova (?) legge elettorale; la riforma (?) della giustizia; le grandi opere pubbliche tuttora al palo; il "premierato" cioè una qualche forma di presidenzialismo.
Tutto ciò a partire dal gennaio prossimo, cioè a due anni e mezzo dall'inizio di una legislatura che finora è stata quasi esclusivamente impegnata a tutelare gli interessi personali del presidente del Consiglio e del gruppo di potere che si è formato attorno a lui. Nessuno crede che un accumulo di problemi di queste dimensioni possa consentire soluzioni rapide ed efficienti, ma il catalogo comunque è questo. Chi vivrà vedrà.
nostro fondato parere che rinviare di sei mesi (in pratica a tempo indeterminato per le ragioni sopra dette) la riforma della riforma pensionistica effettuata nel '95 sia un errore che dovrebbe essere evitato nell'interesse soprattutto dei giovani che hanno fatto o sperano di poter fare al più presto il loro ingresso nel mercato del lavoro. Ma va detto subito che l'intero tema delle pensioni ha dato vita ad una vera e propria leggenda metropolitana, alias ad una confusione di concetti e ad un polverone mediatico così fitto da nascondere la realtà dei fatti e la vera natura della questione.
E' perciò mia intenzione cercar di diradare la nube di polvere e di chiacchiere, a crear la quale hanno in questi anni e in questi mesi contribuito alacremente molti belli ingegni, economisti esperti politici imprenditori in discorde concordia con l'obiettivo di trasformare il tema pensioni in un "marker" del tasso di riformismo presente nella società italiana.
Dalla riforma della riforma questi "muezzin" che la invocano a gran voce dai vari minareti mediatici dei quali dispongono dicono infatti di aspettarsi: un nuovo "welfare" modellato sulla modernità, il riassetto economico del sistema secondo le esigenze della demografia italiana, il riassetto della finanza pubblica schiacciata dal disavanzo dell'Inps, il rilancio dell'economia, l'accrescimento della competitività, la nascita (finalmente) dei fondi pensione. Insomma un vero paese di Bengodi a portata di mano purché ci si convinca a mandar la gente in pensione qualche anno più tardi e ad applicare una energica terapia di dimagrimento alle pensioni di anzianità.
La leggenda metropolitana consiste appunto in quest'elenco di benefici effetti che ci dovrebbero cadere in bocca come pere mature dall'albero della cuccagna e che invece ci sono preclusi dall'ostinazione incomprensibile di Epifani e Pezzotta, Fassino e Cofferati, Rutelli e Bertinotti, cioè dai comunisti ancora aggrappati alle loro impresentabili ideologie. Ebbene, le cose non stanno affatto così come andiamo a dimostrare.

* * *
Cominciamo anzitutto da una falsità sulla quale è stata costruita la leggenda metropolitana delle pensioni "rovinatutto": l'insostenibile disavanzo dell'Inps che grava come un macigno sui conti dello Stato.
Fino al 1999 i conti previdenziali dell'Inps erano in perfetto pareggio: tanto spendeva per pensioni e tanto incassava di contributi, ancorché alcune gestioni di lavoratori autonomi e professionisti, nate in epoche relativamente recenti, presentassero cospicui disavanzi. Ora le cifre aggiornate sono le seguenti: spese pensionistiche contributive 145 miliardi; entrate per contributi 134 miliardi; sbilancio 11 miliardi.
Ma ecco l'inghippo: le uscite pensionistiche totali dell'Inps non sono di 145 bensì di 174 miliardi di euro. Lo sbilancio totale sale dunque a 40 miliardi. Di che si tratta? E' colpa dell'età pensionabile e troppo giovanile? E' colpa del sistema retributivo? E' colpa delle pensioni di anzianità? Niente affatto. Si tratta semplicemente del fatto che quei 29 miliardi di sbilancio (più gli 11 dovuti a disavanzo contributivo) sono da imputare non già al sistema della previdenza bensì a quello dell'assistenza sociale. E cioè: pensioni d'invalidità, pensioni sociali o di povertà, integrazioni al minimo.
Questo robusto complesso di erogazioni non ha niente a che vedere con la previdenza. Se un lavoratore incorre in un incidente sul lavoro gli viene assegnato un vitalizio proporzionato all'età e alla natura dell'invalidità; l'Inps funge soltanto da sportello pagatore. Se un povero diventa vecchio gli viene assegnata una pensione sociale che lo tenga in vita; se la pensione di un anziano, a causa di scarse sue contribuzioni, è al di sotto del livello minimo di sussistenza, lo Stato integra la somma per portarla a un livello appena decente.
Risulta evidente a tutti - e lo capirebbe anche un bambino - che queste spese sono di natura assistenziale e non previdenziale; infatti non hanno a fronte alcun contributo e debbono pertanto essere finanziate dalla fiscalità generale. Però passano attraverso l'Inps e quindi i nostri "muezzin" gracchiano che le pensioni creano un onere di 40 miliardi l'anno a carico del Tesoro, cioè di tutti noi. Falso, assolutamente falso. Il bello è che questa panzana è accreditata dall'autorevole (?) ministro del Tesoro che queste cose le dovrebbe sapere meglio di tutti.
Il deficit falsamente attribuito alle pensioni contributive si ripercuote sull'incidenza della spesa pensionistica sul Pil. In effetti questo rapporto risulta essere tra i più alti d'Europa, pari al 13.80 per cento, inferiore soltanto all'Austria (14.50) e prossimo alla Grecia (12.60) alla Francia (12.10) alla Germania (10.80) ai Paesi scandinavi tutti posizionati attorno al 10 per cento.
Se le cifre della gestione previdenziale fossero correttamente computate la loro incidenza sul Pil sarebbe non già del 13.8 ma dell'11.4 per cento. Ancora più basso sarebbe il rapporto se la gestione contributiva non fosse stata aggravata dal passaggio all'Inps di tutto il personale ferroviario (in realtà pubblico impiego) che si è portato appresso un robusto disavanzo scaricato perciò dal Tesoro all'Istituto di previdenza. Si scenderebbe in tal caso sotto all'11 per cento a poca distanza cioè dalla media dell'Unione europea che incide sul Pil per il 10.40 per cento. Tutto ciò in anni di vacche magrissime per il Pil italiano. Se esso riacchiappasse sia pure il modesto tasso di crescita del 2 per cento l'incidenza del disavanzo pensionistico diminuirebbe ancora. In conclusione l'idea fissa che le pensioni schiaccino l'economia del nostro paese è una falsità cifre alla mano.

* * *
Ma è vero che i giovani lavorano per mantenere i vecchi. Tra pochi anni due giovani porteranno sulle spalle un vecchio. Fu Ugo La Malfa, se non ricordo male, a lanciare per primo questa plastica immagine per spiegare la nostra anomalia pensionistica e i suoi perversi effetti causati dalla senilità demografica del paese.
Ferma restando l'esattezza dell'immagine lamalfiana invito a riflettere su un fenomeno di dimensioni ormai macroscopiche: la prolungata e spesso prolungatissima convivenza dei figli adulti in casa dei genitori, spesso anche da sposati e talvolta perfino con un nonno convivente. Questo fenomeno di massa, specie nel Centrosud, è dovuto a molti elementi tra i quali campeggia il reddito pensionistico del padre o della madre o del nonno o di tutti e tre. E' dunque senz'altro vero che i lavoratori giovani tengono sulle spalle i loro vecchi, ma è del pari vero il reciproco.
Un'analisi attenta dovrebbe incrociare questi due fenomeni e vedere da quale parte inclina la bilancia. Ci potrebbero essere molte sorprese.

* * *
Mi hanno colpito due osservazioni di Luciano Gallino, che è uno dei massimi esperti su questi argomenti, contenute in un articolo pubblicato di recente su "Repubblica". Scrive Gallino che la produttività intesa come quota di Pil prodotto per ora lavorativa, aumenta mediamente di circa il 2 per cento l'anno. Cumulando questo aumento e proiettandolo al 2050 si registra un raddoppio di produttività. Ciò significa che se oggi quattro lavoratori portano sulle spalle un anziano e nel 2050 questa anomala portantina sarà diventata di due giovani lavoratori per ogni vecchio, la fatica dei due sarà però identica a quella dei quattro di oggi.
Altra osservazione: una ricerca dell'università di Pavia ha calcolato inoltre 7 punti percentuali la quota Pil disponibile per i consumi delle famiglie negli anni Novanta. Nello stesso periodo la quota del monte retribuzioni lorde sul Pil è scesa dal 36 al 30 per cento. "Un taglio alle pensioni - scrive Gallino - aggiungerebbe a tali salassi già subiti dai redditi di lavoro un'altra sottrazione di diecine di miliardi di euro l'anno" .
Vedete voi se conviene.

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Penso, ciò nonostante, che sia utile decidere al più presto il passaggio di tutti i lavoratori dal sistema retributivo a quello contributivo. La stessa Cgil fin dal 1998 si dichiarò favorevole a questo cambiamento e spero che ancora lo sia. Se ne acquisterebbe in certezza del diritto e in solidità del sistema. Si tratta in altri termini di accelerare i tempi della riforma Dini di quattordici anni creando le condizioni per superare la "gobba" sfavorevole del 2013-2030.
Ma questa riforma della riforma, che può coesistere con incentivi a restare al lavoro oltre i sessantacinque anni, è accettabile soltanto ad una tassativa condizione: che i risparmi così effettuati siano destinati interamente a creare il sistema di ammortizzatori sociali e tutele attualmente inesistente per gran parte dei lavoratori. A parole tutti sono d'accordo ma nessuno fin qui ha detto ciò che in molti pensiamo: essendo il governo Berlusconi largamente inaffidabile e ben collaudato in promesse non mantenute, il passaggio al sistema contributivo deve avvenire in una legge che provveda contestualmente alla nascita di un completo sistema di ammortizzatori sociali da discutere insieme alle parti sociali.
O così o niente. Il lavoro italiano ha già dato molto e non può più regalare niente a nessuno. Soprattutto non può esser preso in giro con promesse da marinaio.


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