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Ragazzi, ora ribellatevi di frustrazione si muore

Nessun accordo accademico che vada oltre le competenze del candidato è tollerabile

30/09/2017
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la Repubblica

Elena Cattaneo

Un PROFESSORE che inviti un candidato di un concorso a ritirarsi perché «non è previsto che vinca», o affinché «sia abilitato un altro» meno meritevole, accompagnando l’invito con la minaccia — neppure velata — che «altrimenti la sua carriera universitaria sarà compromessa», non è degno di ricoprire una carica accademica.

PER quanto possa essere competente, un “Maestro” nella sua disciplina, l’indegnità rimarrebbe indelebile quale conseguenza del tradimento dell’etica della ricerca e della formazione. L’etica pubblica di chi pratica e insegna una disciplina accademica impegna a garantire e promuovere la libera competizione delle idee, che è l’unico modo di assicurare la crescita scientifica di qualunque settore e la maturazione professionale e morale dei futuri docenti. Un professore universitario è chiamato, sulla base delle libertà garantite dalla Costituzione, alla formazione e alla selezione di giovani studiosi cui “passare il testimone” della conoscenza. In una democrazia avanzata l’università che non rispettasse questo imperativo morale non avrebbe ragione di esistere.

Nessun accordo accademico che vada oltre le competenze del candidato e le “recommendation” che tutti gli studiosi sono spesso chiamati a scrivere per presentare giovani ricercatori meritevoli ai colleghi di altre Università italiane o straniere è tollerabile. Chi tradisce questo patto, stretto con i cittadini che pagando le tasse finanziano l’attività di ricerca, è giusto che ne risponda nelle sedi competenti, giudiziarie e accademiche, e, soprattutto, è bene che non possa fare affidamento sulla mortifera “indulgenza culturale” cui spesso il Paese è incline. In questo senso le dichiarazioni della ministra Valeria Fedeli e del Rettore dell’Università di Firenze di volersi costituire parte civile nella “vicenda” delle abilitazioni nazionali a professore di Diritto tributario sono un punto fermo da cui partire.

Denunciare condotte che in altri contesti definiremmo “mafiose” è giusto. Rifiutare di farsi da parte, costringendo i valutatori invischiati in qualche combine ad arrampicarsi sugli specchi, aumentando le possibilità di invalidare l’intera procedura, è necessario. Se di fronte alla convinzione di avere subito un danno si resterà inerti, se non scatterà la molla per contribuire al cambiamento possibile, si uscirà sconfitti e, forse, anche “inutili” e non ci si potrà più lamentare.

Ragazzi, non mettetevi più in fila. Voi avete il dovere di impegnarvi e chiedere molto a voi stessi, restando impermeabili alle scorciatoie furbesche e ai compromessi. Il vostro mentore ha il dovere di valorizzare e accrescere le vostre competenze, di rendervi competitivi con altri ricercatori, di insegnarvi ogni aspetto della disciplina, inclusa l’integrità morale — cioè a non ingannare voi stessi o altri — alla quale lo studio obbliga, perché possiate farvi strada nella ricerca e nell’accademia da soli e per quel che valete. Se, viceversa, questo apporto non c’è, se siete costretti, o vi adagiate, in una condizione di subalternità ai desiderata di chi — impropriamente — vive il “servizio” accademico come un Don Rodrigo qualunque, scappate e cercate altro. Perché prima o poi di aria viziata, di anossia, si muore. Si muore di frustrazione quando le aspettative di vassallaggio non si realizzano, oppure si “muore dentro” subito dopo, quando entrati nel meccanismo lo si perpetua, avendo perso l’amor proprio e la fiducia nelle proprie capacità.

Ribellarsi non è facile, lo so. Ma rimane necessario. Io stessa, da “semplice” ricercatore, mi sono trovata a ricorrere, con alterne fortune, alla giustizia e alle denunce pubbliche per segnalare spartizioni amicali di fondi pubblici o bandi scritti per alcuni ricercatori o contro altri. Reagire, per quanto difficile, è meno pregiudizievole di quanto si pensi e le sempre più circoscritte, logore, anacronistiche e indifendibili sacche di potere baronale che si alimentano del denaro pubblico (dentro e fuori le Università), sono più fragili di quanto diano a intendere. Per far scoppiare le rane che si gonfiano, basta uno spillo, che questa volta ha avuto il nome di Philip Laroma Jezzi. Il tessuto connettivo dell’università è sano. Pur con risorse irrisorie, l’Italia è — come ricordato giustamente da Juan Carlos De Martin su queste pagine — saldamente tra i primi dieci Paesi al mondo per la ricerca. La formazione dei laureati, peraltro ancora troppo pochi, è assolutamente competitiva a livello internazionale. L’avvitarsi del sistema universitario è dovuto, in larga parte, al disinteresse per la formazione e la conoscenza, ad una gogna mediatica che non fa distinzioni, alla spaventosa esiguità di fondi, all’umiliazione dei blocchi stipendiali e allo stop delle assunzioni e del turn-over dei ricercatori, confinati in un precariato senza prospettive. Spetta al Paese invertire la rotta. Spetta a ciascuno di noi vigilare e reagire contro ogni uso perverso dei soldi dei cittadini. Recentemente il governo ha dimostrato di volere iniettare fiducia nella ricerca italiana con l’annuncio della Ministra Fedeli di destinare 400 milioni di euro alla ricerca di base competitiva. È il più grande investimento degli ultimi 20 anni e una importante palestra. Dovere della comunità accademica tutta è far sì che questi fondi premino la libera competizione tra le idee, superando ogni genere di conflitto di interesse, così da riconquistare la fiducia dei nostri ricercatori. Dovere di ogni docente universitario è garantire la propria affidabilità e accrescere l’orgoglio della propria responsabilità pubblica, arginando distorsioni che minacciano la straordinaria opportunità di poter studiare, con i soldi e per conto dei cittadini, cose complesse, ignote, affascinanti, utili, di tutti.