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Pubblici o privati? Asili in tempo di crisi

ISTRUZIONE Meno iscrizioni e orari dimezzati. Una fotografia della scuola dell'infanzia italiana

11/05/2013
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il manifesto
Eleonora Martini
L'Ue ricorda che l'offerta chiama altra offerta, e libera energie lavorative femminili L'Italia dentro i parametri di Lisbona, grazie alle comunali (ma anche alle private)
Una fotografia delle scuole dell'infanzia italiane: è la prima richiesta inoltrata al Miur dalla nuova Commissione Cultura della Camera insidiatasi appena qualche giorno fa. Uno dei primi atti compiuti appena dopo aver nominato il presidente Giancarlo Galan, il vice e i segretari, per avere un quadro completo in occasione del referendum bolognese. A riprova dell'importanza politica della consultazione popolare - solo consultiva - organizzata nel capoluogo emiliano da un rete amplissima di associazioni e liberi cittadini che si adoperano in favore dell'istruzione pubblica. Ma fare il punto delle classi pre-elementari, a cui accedono i bambini tra i 3 e i 5 anni, non è cosa semplice: il rapporto «Scuola in chiaro» del ministero dell'Istruzione, per esempio, è fermo al 2009-2010, mai più aggiornato. Dati disaggregati se ne possono avere, per esempio dalla rivista «Tuttoscuola», dall'Flc-Cgil o dall'Istituto degli Innocenti toscano, «la più antica istituzione pubblica italiana dedicata alla tutela dei bambini», come recita la sua stessa mission. Ma di ufficiale attualmente non c'è nulla. La cronaca però registra la difficoltà delle famiglie a trovare asili adatti alle proprie esigenze, con lunghe liste d'attesa soprattutto nelle città metropolitane che magari si sgonfiano a settembre ma che lasciano i genitori in apnea per mesi, aspettando di capire come organizzare la propria vita alla ripresa dell'anno scolastico. E c'è un dato che arriva dai territori più degradati, non ancora stabilizzato ma comunque un segnale inquietante: migliaia di famiglie, soprattutto nelle zone ad alta concentrazione di immigrati, che da qualche anno rinunciano alla scuola d'infanzia - che d'obbligo non è - o al più iscrivono i bimbi solo nell'orario antimeridiano, per risparmiare sulle rette e sulle spese della mensa (un centinaio di euro al mese, mediamente). È la crisi che ormai soffoca l'economia delle famiglie e a cui si aggiunge l'impossibilità per gli enti locali di intervenire sul welfare di supporto, a causa dei tagli sempre più consistenti.
Istruzione 3.0
A differenza degli asili nido che coprono mediamente il 12,7% del fabbisogno (vale a dire i bambini residenti tra 0 e 3 anni), il numero di scuole dell'infanzia presenti sul territorio nazionale (24.260 plessi, di cui 13.537 statali, 2.428 comunali e 8.295 private, paritarie e non, secondo dati dell'Ires Cgil relativi all'anno 2011) è sufficiente a portare l'Italia tra i Paesi che rispettano l'obiettivo del 90% di scolarizzazione (siamo attualmente a circa il 94%) fissato dalla Carta del Consiglio Europeo di Lisbona nel 2000 integrata poi a Barcellona due anni dopo. Anche se il processo di generalizzazione della scuola dell'infanzia si è bruscamente interrotto nel 2009, perfino con una flessione delle sezioni in alcune regioni. Ma quel 94% è una copertura di cui l'Flc-Cgil non si accontenta: «Il fabbisogno è il 100% dei bambini tra i 3 e i 5 anni - spiega il segretario generale Mimmo Pantaleo - come ci chiede l'Europa che nei suoi studi economici, oltreché pedagogici, invita gli stati membri ad aumentare gli investimenti sull'istruzione pre-elementare, considerata fondamentale per il successo negli studi e per l'inserimento nel mondo del lavoro. Noi abbiamo una proposta ben precisa: aprire ogni anno 500 nuove sezioni dell'infanzia statale per 5 anni; fanno 2500 sezioni con un costo per il personale di circa 170 milioni di euro. Un investimento sul futuro».
E invece l'Italia va nella direzione opposta: tagliare sull'istruzione significa realizzare una scuola non inclusiva, con filtri d'accesso sui più deboli che fanno carta straccia del dettato costituzionale. E, come diceva Don Milani citato da Pantaleo, «non c'è nulla di più ingiusto che fare parti uguali fra disuguali». Non solo per i bambini ma anche per le mamme, perché, come spiega un recente rapporto Unicef, «l'offerta chiama altra offerta», e libera anche energia lavorativa femminile.
Pari e dispari
È con Sergio Govi, esperto di problematiche scolastiche e autore di numerosi libri sull'argomento, collaboratore di «Tuttoscuola» e del Miur, che tentiamo di fotografare l'attuale condizione della scuola dell'infanzia italiana. «Diciamo subito che il 60,4% dei bambini è iscritto alle scuole statali, storicamente le più antiche; il resto è distribuito nelle scuole comunali o private, che siano paritarie (il 38,5%), i cui requisiti sono dettati dalla legge 62/2000, o non paritarie (l'1,1%). Non tutte le private ma nemmeno le comunali - spiega Govi - ottengono a livello regionale il riconoscimento di conformità all'ordinamento scolastico statale». L'esperto del ministero dell'Istruzione racconta che fino a 4 anni fa, quando «l'occupazione femminile si espandeva anche a livello europeo», c'era stata un'impennata della domanda e «le iscrizioni avevano sfiorato quasi il 100% dei bambini residenti». Un dato che però «era gonfiato dall'anticipo di iscrizione per i piccoli che ancora non hanno compiuto i tre anni; un meccanismo prima fermato dal governo Prodi e poi rilanciato dalla Gelmini». In questi ultimi anni invece si registra una flessione delle iscrizioni a causa della crisi: se ai costi della retta (maggiori nelle scuole paritarie, che comunque ricevono contributi anche statali e comunali) si aggiunge un lavoro precario e mal retribuito, spesso le donne finiscono per scegliere di rimanere a casa e ritirare i bambini dagli asili. «Questo vale soprattutto per le famiglie straniere e soprattutto per le bambine, quindi c'è una questione economica ma anche culturale». A tutto ciò si aggiungono i tagli agli enti locali. Govi racconta un aneddoto: «Proprio oggi parlavo con un sindaco di centrodestra disperato per la richiesta di Berlusconi di abolire l'Imu perché in questo caso, spiegava, avrebbe dovuto rinunciare ai servizi per l'infanzia; diceva che così avrebbe restituito la fascia tricolore».
Un dibattito lungo 50 anni
Ecco perché il caso di Bologna acquista un'importanza nazionale. «Per sopravvivere - continua Govi - le scuole paritarie hanno bisogno spesso anche dei contributi comunali. Soldi che il comune potrebbe usare in altri modi, certo, ma mancando questo tipo di finanziamento le paritarie potrebbero dover chiedere un contributo più alto alle famiglie». Per capire meglio bisogna sapere che a differenza della scuola dell'obbligo «la scuola dell'infanzia a gestione statale è presente più al Nord che al Sud ma non è arrivata alla generalizzazione». La paritarie private e comunali coprono perciò «il 40% del servizio: un'esigenza sociale e non un surplus di offerta - spiega ancora Govi - guai se mancassero, lo Stato non sarebbe in grado di sostituirle». Ma le scuole comunali sono presenti massicciamente solo nelle grandi città e in Emilia Romagna, «mentre in Toscana, dove pure ce n'erano molte, sono passate negli anni alla gestione statale». Succede così che «in realtà come Palermo o Catania, dove l'amministrazione è stata storicamente assente, la maggior parte delle scuole sono statali ma funzionano solo nell'orario antimeridiano». Ecco perciò che il problema non è tanto nel numero degli iscritti quanto piuttosto nella qualità del servizio: «Una scuola dell'infanzia vera e propria deve funzionare almeno otto ore al giorno».
È da 50 anni che si dibatte sulla scuola paritaria, e non solo tra laici e cattolici. Govi è molto critico con la sinistra: «Oggi si sta tornando alle origini», dice. E si capisce che per lui il referendum bolognese ha un sapore un po' troppo «ideologico». Il nodo, conclude, non sono le 10 mila domande rimaste inevase a Roma (che non vuol dire bambini rimasti a casa), né le liste d'attesa che ogni anno si gonfiano per le iscrizioni multiple: «Le famiglie cercano tendenzialmente la scuola migliore e più vicina ma alla fine si adattano; dunque il punto oggi è che generalizzare la scuola dell'infanzia non significa scolarizzare tutti i bambini tra i 3 e i 5 anni, ma piuttosto diffondere l'offerta, garantire il servizio là dove la gente vive». Si dovrebbe lavorare almeno in questa direzione. Altrimenti a pagare, da subito, sono le donne. Oltre ovviamente ai bambini, cioè le donne e gli uomini di domani.
 

Comuni

% quota sezioni scuole infanzia paritarie PRIVATE

% quota sezioni scuole infanzia paritarie COMUNALI

% quota sezioni scuole infanzia STATALI

Sezioni scuole infanzia sistema integrato

19,31 22,65 41,28 23,33 41,03 41,46

73,52 60,29 36,63 38,46 17,38 23,42

7,17 17,06 22,09 38,21 41,59 35,12

1.186 340 172 2.332 443 730

72.150

Milano Bologna Reggio E. Roma Bari Palermo

Italia


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