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Per insegnare, meno crocette più formazione

Beppe Bagni, Alba Sasso

29/05/2020
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il manifesto

È stato appena raggiunto un accordo sui concorsi straordinari per l’assunzione di 32 mila docenti precari, con almeno tre anni di servizio. La ministra Azzolina ha dichiarato che in questo modo si potrà rispondere anche ad una precisa richiesta delle famiglie che vogliono certezze.

Certezze sulla qualità della scuola e degli insegnanti. Una richiesta sacrosanta che però dovrebbe ricevere una risposta meno superficiale di quella proposta dalla ministra. Anche perché la qualità della scuola non risponde solo alle esigenze delle famiglie ma a un fondamentale principio costituzionale, “articolo 3, comma due”, quello di fornire a tutte e tutti quel patrimonio di conoscenze e competenze, che permettono l’esercizio della cittadinanza.

Si è parlato di principio di meritocrazia salvata: vorremmo capire come si fa a scomodare i “sacri” principi con un concorso a quiz, 80 in 80 minuti, su tutto il sapere disciplinare, didattico e metodologico. Il merito sta solo nell’averlo fatto sparire.

Ma non si potrebbe smettere di correre dietro alle famiglie, trovando invece il coraggio di guidarne il giudizio?

Il coraggio che si ebbe con la scelta della scuola media unica, quando si disse al Paese che doveva abbandonare il pensiero semplificato secondo il quale ”chi non ha voglia di studiare deve andare a lavorare” perché la democrazia e il lavoro, e soprattutto la crescita democratica del Paese richiedevano più sapere per tutte e tutti.

E forse il Paese è pronto a capire che un esame, qualunque sia, non basta per garantire la qualità degli insegnanti; che il concorso, previsto dalla Costituzione, deve essere affiancato da un percorso di formazione e specializzazione per l’insegnamento.

Forse si può dire alle famiglie che ad un docente che insegna da 3 anni si deve chiedere, non una ennesima conferma della sua competenza disciplinare (uno di noi si è giocato l’abilitazione per Chimica sulla Legge di Hess e sulla titolazione con Salda d’amido che in 30 anni di scuola non mi è mai capitato di trattare), ma un anno di formazione serio, che preveda una riflessione costante sul proprio insegnamento, insieme alla garanzia di un supporto continuo durante tutto il percorso e, soprattutto, insieme alla possibilità di permessi di studio per completare la propria preparazione pedagogica e didattica. L’esame si poteva fare alla fine di questo anno, che sarebbe stato a tutti gli effetti di vera formazione, capace di lasciare un segno profondo nella biografia formativa dei docenti.

Quale migliore occasione di questa? Gli insegnanti avrebbero potuto sin da subito impegnarsi in vista di un settembre in cui ci sarà bisogno di loro per ripensare la scuola e stare vicini ad alunne e ad alunni, invece di ripiegare su se stessi, in vista del concorso autunnale che li attende.

Non è andata così, ha prevalso la preoccupazione rispetto alle richieste delle famiglie. Ma la qualità che le famiglie auspicano non richiede il percorso formativo nelle forme più tradizionali, a cominciare dal tema, per stabilire se siano adatti a insegnare docenti che da tre anni stanno insegnando.

Questa, comunque, sembra sia stata la migliore mediazione possibile. Poteva andare peggio, visto che su un altro fronte caldo come quello delle valutazioni di fine anno, sempre per “media” la ministra Azzolina ha inteso “fare la media” tra voti privi di un significato.