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Messaggero: Studiare, studiare, studiare

STUDIARE, STUDIARE, STUDIARE di FRANCO FERRAROTTI I RISULTATI dell'indagine Istat su occupazione e titoli di studio sono, almeno in parte, sorprendenti e meritano attenta riflessione. ...

06/07/2003
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Il Messaggero

STUDIARE, STUDIARE, STUDIARE
di FRANCO FERRAROTTI
I RISULTATI dell'indagine Istat su occupazione e titoli di studio sono, almeno in parte, sorprendenti e meritano attenta riflessione. Ancora recentemente si era soliti sputare, per così dire, sul 'pezzo di carta', vale a dire sulla laurea, ritenuta inutile perdita di tempo e di denaro, fatica non compensata da un rapido, redditizio approdo nel mercato del lavoro. I dati dell'Istat ci dicono invece che, oggi forse più di ieri, studiare è utile, che la laurea non è un pezzo di carta straccia, che un titolo di studio apre più facilmente possibilità di lavoro relativamente soddisfacente.
I dati dicono anche di più. Sono l'inattesa rivendicazione del valore della 'laurea breve'. Diplomi e lauree brevi erano stati accolti a suo tempo con una buona dose di scetticismo fra i professori cattedratici più autorevoli, quelli che all'epoca della contestazione del '68 venivano con scarso rispetto chiamati 'baroni'. Si temeva, anche con qualche buona ragione, uno svilimento del titolo di studio finale, cioè della laurea, che nell'ordinamento universitario italiano costituiva pur sempre l'unico momento in cui lo studente poteva dar prova della sua originalità e si impegnava nella elaborazione di un suo scritto personale. Si temeva, in altre parole, che con la laurea breve e i diplomi l'università dovesse fatalmente perdere lo spirito critico su cui era storicamente cresciuta e che con i nuovi 'moduli di insegnamento' finisse per diventare l'università del Bignami, destinata a fornire solo un'infarinatura di informazioni acritiche a studenti incapaci di approfondire non importa quale problema.
Timori largamente infondati. L'indagine Istat non ci risparmia verità amare: in Italia la disoccupazione giovanile tocca ancora il 26,7% mentre in altri Paesi, paragonabili all'Italia, come la Francia o la Germania, la percentuale è meno che dimezzata. E' probabile che in Italia stiamo duramente pagando il basso livello degli investimenti nella scuola così come, con riguardo alla produzione industriale, stiamo amaramente scontando la miope politica che si illude di risparmiare tagliando i fondi alla ricerca scientifica.
Che poi trovino lavoro soprattutto i giovani diplomati in certe materie ad alto contenuto professionale, come ingegneria, e non invece in altre materie più generosamente aperte sui problemi della società, come scienze della formazione, non dovrebbe stupire più di tanto. Ai livelli bassi e intermedi dall'apparato produttivo, è chiaro che avranno sempre la preminenza studi che portano a preparazioni specifiche prontamente utilizzabili. Ma ai livelli medio-alti e alti, là dove è necessaria la visione critica della globalità del processo produttivo, si afferma la necessità di una preparazione culturale in grado di offrire la possibilità di valutazioni razionali globali. Non dovrebbe, da questo punto di vista, stupire eccessivamente che in paesi tecnicamente molto progrediti abbia preso piede ormai la tendenza ad impiegare, per esempio nelle direzioni del personale, non più esperti in diritto del lavoro o periti industriali, bensì addirittura filosofi ed esperti in psicologia di gruppo. Forse con eccessiva ingenuità si è dato ascolto a chi prometteva, preconizzando una società post-industriale, una sorta di Eden in cui il lavoro non sarebbe stato più necessario o lo sviluppo avrebbe potuto aver luogo senza mansioni nelle aziende produttive. Visioni generose, ma favole, di scarso conforto per giovani traditi da un insegnamento insufficiente, spesso analfabeti di ritorno, alla caccia di un posto di lavoro introvabile. L'indagine Istat fa sommaria giustizia di certi utopismi ridicoli: lo studio è più che mai necessario per ottenere un lavoro adeguato, che si spera non precario, ossia a tempo indeterminato.
La società industriale in cui viviamo è per definizione una società in sviluppo, dinamica; non può sopravvivere se non espandendosi e sviluppandosi, ma ciò postula, in primo luogo, più ancora che capitali, una riserva di cultura, vale a dire una manodopera e dei quadri dirigenti mentalmente articolati, duttili, capaci di operare i riadattamenti socio-psicologici resi necessari dall'abbandono dei metodi produttivi e distributivi tradizionali. L'istruzione, la cultura in questo tipo di società non sono più un lusso. Sono una necessità strettamente funzionale. Senza di esse, il meccanismo sociale si blocca o funziona al livello della mera sussistenza. Investire nella scuola e nella cultura significa, per questa società, garantirsi l'avvenire.


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