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Messaggero: RIcerca, ecco il piano per i più giovani. Il 25% dei fondi agli under 40

Tra le novità, concorsi a cattedra “europei” e università differenziate

09/12/2009
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Il Messaggero

di ANNA MARIA SERSALE
ROMA - Il venticinque per cento dei fondi destinati alla ricerca più avanzata andranno a «studiosi di età non superiore ai 40 anni» per progetti finalizzati allo «sviluppo di nuova conoscenza, con impatto sul lungo periodo». Lo scopo è quello di finanziare i giovani “driver” dell’innovazione per sostenere «l’eccellenza» e combattere «ritardi e inadeguatezze». I soldi saranno subordinati alla valutazione fatta da esperti internazionali su «progetti già realizzati dal richiedente». E’ in sintesi uno dei passaggi chiave contenuto nel “Programma nazionale per la ricerca, 2009-2013”, che detta le linee guida per i prossimi anni e che sarà presentato a Palazzo Chigi entro dicembre. Sul testo sono in corso le ultime limature, ma l’impianto è definito. In realtà doveva sbarcare in Consiglio dei ministri già a fine novembre, poi le difficoltà sulla Finanziaria hanno suggerito uno slittamento.
Dal piano si capisce che il governo ha deciso di aprire ai giovani ma vuole anche dare una scossa al mondo universitario. A pagina 32 è scritto che «per stimolare atenei ed enti pubblici a contribuire al rilancio» si prospettano nuovi interventi strutturali. «Ogni cattedra messa a concorso sarà aperta all’intero bacino europeo» per attrarre studiosi dall’estero. Inoltre saranno dati «premi» agli atenei che riescono a «generare ricavi trasferendo al mercato i propri risultati di ricerca», per ottenere quel collegamento tra accademia e impresa che non si è mai realizzato.
Ma quello che più colpisce è l’idea di «differenziare le università», quelle dedicate alla didattica da quelle dedicate alla ricerca. Secondo il modello americano, il riordino universitario potrebbe prevedere la teaching university che per il 90% svolge attività didattica e la research university, che per il 50% si concentra nella ricerca. Una querelle, questa, che da noi ha detrattori (nascono le università di serie B) e grandi sostenitori (cade la finzione delle università tutte uguali).
Le ambizioni, però, si scontrano con i vincoli di spesa e i problemi stratificati da decenni. «L’attività di ricerca non è allineata a quella dei principali Paesi industrializzati», è questa una delle prime considerazioni contenuta nelle 48 cartelle in cui il governo enuncia le «strategie per indirizzare lo sviluppo». E gli investimenti, pochi, si disperdono in mille rivoli. Sotto accusa la «molteplicità dei centri decisionali e di spesa» che tra regioni e ministeri incentiva la «frammentazione» tendendo a «duplicare e a sovrapporre» le iniziative. Per questo si pensa a una cabina di regia, che coordini. Poca internazionalità e età troppo elevata dei ricercatori, gli altri mali da combattere. Oltre alla «resistenza» della ricerca pubblica ad adottare incentivi e a trasferire la conoscenza alle imprese.
Ma se la ricerca non decolla è anche colpa della scarsità di laureati in materie scientifiche. L’indagine Firb di Confindustria segnala che alcune strozzature delle attività di ricerca privata dipendono dalla «difficoltà di reperire diplomati e laureati in settori specifici». I laureati tecnico scientifici da noi sono una rarità: solo l’8,20% della popolazione compresa tra 20-29 anni. Nell’Europa a tre, quella dei paesi leader, la percentuale dei laureati in materie scientifiche sale al 19,30%, più del doppio. L’Italia è indietro anche se si confronta con l’Europa a 27, che ha il 13,40%. Ed ecco un altro segnale negativo: da noi gli occupati in high-tech sono appena il 7,60%, nell’Ue a 27 il 14,50%. I brevetti per milione di abitanti in Italia sono il 76,10% , nell’Ue a tre il 317,90% e nell’Ue a 27 il 105,70%. Da brivido il confronto sull’istruzione superiore, ossia sul numero complessivo di laureati: l’Italia ha lo 0,89% della popolazione tra 25 e 26 anni, l’Europa a tre il 2,44%, il Giappone il 37,40% e gli Usa il 38,40%. Insufficienti anche i finanziamenti: quelli pubblici sono lo 0,56 del Pil, mentre la media europea è dello 0,65%, percentuale che sale allo 1,04 nell’Ue a tre. Se poi si prendono in considerazione i soldi dei privati il divario cresce: da noi lo 0,55%, nell’Ue a tre il 2,43%, nell’Ue a 27 l’1,2%, in Giappone il 2,39%. Il piano per la ricerca non si ferma a queste osservazioni. Si evidenzia anche che nelle università è diminuita la quota di investimenti in ricerca ma è aumentato del 10% il numero degli addetti, che sono 67.000. Si rimprovera anche la «scarsa propensione all’applicazione dei risultati della ricerca: abbiamo pochi brevetti e poche collaborazioni con le imprese».
Redatto dal Ministero guidato dalla Gelmini, nella premessa il “Programma” prende atto che la ricerca è in sofferenza. Da qui la necessità di agire su più fronti: «consolidare» gli investimenti, «contrastare la frammentazione» delle istituzioni di ricerca e «verificare lo stato di avanzamento delle attività», assegnando un nuovo ruolo alla valutazione, puntando anche alla creazione e al rafforzamento di Centri di eccellenza, aperti alle industrie, con uno sguardo all’Europa che entro il 2020 prevede la «libera circolazione di ricercatori, conoscenza e tecnologie».
Dunque, più risorse per la ricerca, ma spese meglio, meccanismi di valutazione per «far emergere il talento, il merito e l’eccellenza: perché qualsiasi prospettiva di successo è basata sull’aumento del numero dei giovani, valorizzandone il merito e liberandone le potenzialità». Così ai ritardi e alle inadeguatezze si contrappone il «sapere come motore dello sviluppo». Ma abbiamo poca capacità di innovazione e le ambizioni devono fare i conti con il gap che ci separa dagli altri Paesi. Il Polo economico mondiale si è spostato dall’Atlantico al Pacifico e il principio propulsore della ripresa è l’Asia sud orientale per cui dovremo fare i conti con Cina, India, Corea, Hong Kong, Singapore, ecc. L’Europa complessivamente ha calato gli investimenti in ricerca mentre i Paesi emergenti li hanno aumentati.
Perciò ora si punta alla «creazione di imprese ad alto contenuto tecnologico» e alla creazione di poli, distretti e piattaforme di ricerca avanzata. Tecnologie genetiche, energia, materiali, nanoscienze, studi sul cervello, informazione, ambiente, queste alcune delle aree individuate per rilanciare lo sviluppo. In programma anche la fondazione di Scuole internazionali di dottorato, incentivando gli atenei e gli enti di ricerca virtuosi. Si punta anche alle sinergie e a un sistema di governance condivisa.


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