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Manifesto: L'Italia non attira i cervelli stranieri E la ricerca langue»

Dieci anni dopo il trattato di Lisbona, l'Europa della ricerca è ad una svolta

12/03/2010
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il manifesto

Ro. Ci.
Dieci anni dopo il trattato di Lisbona, l'Europa della ricerca è ad una svolta. Per Massimiliano Bucchi, sociologo della scienza dell'università di Trento e curatore dell'annuario Scienza e società 2010 (Il Mulino) con Federico Neresini, anche la proposta del premier spagnolo Zapatero di rendere vincolanti i suoi parametri come è stato fatto per il Trattato di Maastricht è di difficile attuazione. «D'altra parte - aggiunge - i budget che vengono destinati in questo settore sono la seconda voce del bilancio dell'Ue dopo l'agricoltura. Se ogni Stato membro continuerà ad investire in proprio come 50 anni fa, l'Europa va incontro ad una dispersione di risorse ed energie. Anche il dibattito italiano un po' vischioso sulla mobilità dei ricercatori dovrebbe guardare a questo contesto».
La vostra ricerca rivela che le università italiane sono al settimo posto nella classifica dello European Research Council, mentre i loro ricercatori sono al primo posto con 32 progetti vinti. Quanto influisce il sistema del reclutamento su questa asimmetria?
È sempre difficile dire quanto pesano gli aspetti organizzativi nella ricerca, ma sicuramente il reclutamento ha un ruolo decisivo. In queste condizioni la gestione di un grosso progetto può essere molto complicata. Reclutare, ad esempio, il personale di ricerca o tecnico, fare contratti esterni diventa una via crucis.
Come spiega invece la scarsa affluenza di ricercatori stranieri nel nostro paese?
È l'aspetto più preoccupante della nostra situazione. Il vero problema non sono i ricercatori che lavorano all'estero, ma la capacità di attrazione molto bassa dei migliori dall'estero. Si metta nei panni di un trentacinquenne che ha la possibilità di scegliere Amsterdam, Cambridge o un'università italiana. In questa fase dell'età si cerca un ambiente sociale e culturale attraente e una certa qualità della vita. Noi, al di là di quanto possiamo offrire nell'università, non garantiamo servizi per le famiglie, fluidità del mercato del lavoro per un partner che deve seguire un ricercatore o una ricercatrice. Inoltre non c'è contrattazione del salario e dei benefits. Come sappiamo il nostro mercato del lavoro, soprattutto nei confronti degli stranieri, non è generoso.
Buona parte degli scienziati e degli ingegneri italiani ha più di 45 anni. In che modo questa situazione colpisce le donne nella carriera della ricerca?
Sarò drastico. Sebbene sia un problema europeo, nel nostro paese è il risultato delle modalità del reclutamento e della carriera. Se fossero diverse, anche questo aspetto migliorerebbe. Tra i laureati le donne sfiorano il 60%, ma la loro presenza si riduce al 44% ai livelli iniziali della carriera, per scendere al 18% ai livelli più elevati. Nei settori tecnico-scientifici meno di una posizione su dieci da professore ordinario o equivalente è occupata da donne.
Nonostante tutto gli italiani sembrano avere fiducia nella ricerca. Come si spiega?
Dalle nostre rilevazioni emergono giudizi molto duri sulle dinamiche del reclutamento. Quando però si parla della scienza, gli scienziati vengono riconosciuti come una fonte credibile. L'Italia non è un paese antiscientifico, come spesso si dice. Al contrario, c'è un atteggiamento quasi fideistico rispetto alla scienze, con aspettative sociali che rischiano di essere dannose per la comunità scientifica, a partire dalla biomedicina. Tuttavia ciò dimostra che l'opinione pubblica italiana è favorevole all'idea che la ricerca riceva maggiori finanziamenti.
Una maggiore democrazia nell'accesso alla ricerca e alle sue istituzioni potrebbe aumentare la percezione sociale che gli italiani hanno della scienza?
Più che democrazia, direi trasparenza e impegno nel comunicare i risultati delle ricerche, senza dimenticare che abbiamo bisogno di un sistema per valutare le performance dei dipartimenti e di conseguenza distribuire i fondi sulla base dei risultati. Sapere che le poche o le tante risorse esistenti vengono distribuite secondo un criterio condiviso può diventare un importante strumento di legittimazione rispetto ai contribuenti e ai cittadini e a chiunque abbia interesse nella della ricerca.


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