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Manifesto: Di nodo in nodo, la rete dei funamboli della ricerca

I ricercatori precari in un numero della rivista «Inchiesta». Un'ampia panoramica del loro ruolo nell'università e negli enti di ricerca pubblici. Ma anche una carrellata sulle loro mobilitazioni di questi anni. Domani presentazione della rivista a Roma nel Centro Congressi di Via Salaria 113

17/05/2006
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il manifesto

Giuseppe Allegri
«Sono una ricercatrice precaria, ho 35 anni, guadagno circa 1000 euro al mese, ma non so ancora per quanto tempo...» Così, parafrasando involontariamente il titolo dell'ultimo libro di Aldo Nove ( il manifesto del 29 aprile), è intervenuta una spavalda e sorridente ragazza al recente Festival di Filosofia «Instabilità» per narrare la propria singolare appartenenza alla generazione precaria. Ma chi sono «le ricercatrici e i ricercatori precari»? Questi strani, «nuovi animali politici», come ebbe a definirli la rivista Posse nel 2004. Un aiuto per rispondere alla domanda viene dal numero 150 di un'altra rivista, Inchiesta (Dedalo, pp. 112, € 11. Il numero sarà presentato domani a Roma al Centro congressi della Facoltà di Scienze della comunicazione, ore 18, Via Salaria 113), dedicato a una polifonica riflessione su «i ricercatori precari e il futuro dell'Università» e curato dalla Rete Nazionale dei Ricercatori Precari (Nodi di Ferrara e Firenze, www.ricercatoriprecari.org).
Vi sono contenuti trenta interventi: da una prima parte, dedicata alla «università da cambiare», con contributi di docenti e altri studiosi (Bellofiore, Marcelli, Morcellini, Semeraro e Balbo, tra gli altri), ad una seconda che presenta le relazioni del «Convegno Nazionale sul Precariato nell'Università e nella Ricerca» di Ferrara nel 2005, fino all'ultima, che invece raccoglie una ricca «documentazione delle lotte» dei ricercatori precari.
Un'ampia panoramica su quella porzione attiva dei circa 60.000 titolari di un «rapporto di lavoro continuativo ma a tempo determinato (e con retribuzione intermittente) presso atenei ed enti di ricerca pubblici, nella ricerca e nella didattica», come li descrive Anna Carola Freschi nell'introduzione. Questi invisibili lavoratori della conoscenza che si ingegnano tra seminari, docenze, ricerche, formazione, tutoraggi, sessioni di esami, laboratori di ricerca, assistenza tesi, senza alcuna tutela e garanzia oltre una saltuaria retribuzione. E il merito di Inchiesta è aver dato voce alle «autonarrazioni» dei precari della ricerca: una visione in soggettiva che restituisce la ricchezza e l'eterogeneità della «Rete nazionale dei precari della ricerca». Un insieme di nodi locali che si sono attivati da ormai tre anni, prendendo slancio con la contestazione dell'iter legislativo del Decreto Moratti, ma mettendo poi in discussione lo stato complessivo della ricerca e dell'università.
E allora troviamo questa variegata composizione di precari che irrompono nella sonnolenta scena pubblica italiana, a cominciare dalla interruzione della diretta televisiva di Telethon nel dicembre 2004, rivendicando «più investimenti pubblici e meno elemosina» per la ricerca, fino alla partecipazioni alle MayDay, alle occupazioni dei maggiori atenei nel corso dell'autunno scorso, sulle ali di un movimento studentesco che porterà sotto il Parlamento 150.000 giovani di quella generazione precaria che, isolata ed inascoltata, ha anticipato il marzo francese anti-cpe.
Una rete che prevede autonomia dei singoli nodi e capacità di tessere alleanze: tra opposizione sociale e pragmatismo politico, verrebbe da dire. Certo, questo di Inchiesta è uno spaccato di una minoranza attiva. I ricercatori precari «attivi» hanno la sensazione di muoversi nel deserto silenzioso dei propri colleghi e nel vuoto di una socialdemocrazia «intenta più alla conquista delle istituzioni che alla costruzione e all'allargamento del Welfare» (Ida Dominijanni, il manifesto dell'11 maggio). Non hanno però l'attitudine pietistica e risentita dell'isolamento e allora tessono alleanze con gli altri precognitari dell'informazione, dello spettacolo, del lavoro culturale, incrociano così le pratiche di autoriforma della scuola. Sono cioè consapevoli di essere una generazione che per sfuggire alla forbice esclusione/inclusione si auto-organizza per immaginare e sperimentare una vita che valga la pena di essere vissuta.