Liberazione: Lavoro minorile, le promesse non mantenute dell’Italia
In Italia, la Carta di Impegni del 1998, sottoscritta dai sindacati, organizzazioni datoriali e Governo di centro-sinistra, aveva rappresentato un importante passo avanti nella lotta allo sfruttamento minorile nel nostro paese
Undici anni fa veniva ucciso in Pakistan Iqbal Masih, il bambino di 12 anni che aveva osato ribellarsi allo sfruttamento delle fabbriche dei tappeti nel Punjab. Ancora oggi sono circa 352 milioni le piccole vittime dell’“economia informale”
Silvana Cappuccio
Undici anni fa come oggi, il 16 aprile 1995, veniva ucciso in Pakistan Iqbal Masih, il bambino di 12 anni, che aveva osato ribellarsi allo sfruttamento dei proprietari delle fabbriche dei tappeti nel Punjab, la regione dov’era nato, ed era divenuto un simbolo internazionale nella lotta contro il lavoro minorile.
Da allora ad oggi è nato e si è sviluppato nel mondo un ampio movimento di contrasto, soprattutto sulla spinta dell’iniziativa sindacale, che ha consentito, da un lato, di diffondere nell’opinione pubblica una maggiore conoscenza del fenomeno, dall’altra di esercitare una pressione sui Governi, per porre fine a quella che rappresenta una delle forme peggiori di violazione della dignità. Le ultime stime disponibili disegnano un quadro drammatico della situazione riguardante l’infanzia al lavoro, che coinvolge ancora circa 352 milioni di minori dai 5 ai 17 anni. Oltre due terzi dei bambini al lavoro sono addetti alle peggiori forme, ed in particolare al lavoro pericoloso. La maggioranza di questi ha meno di 15 anni.
Il lavoro minorile esiste, seppure in diversa misura e con differenti caratteristiche, così in Africa come in Asia, in America ed in Europa. Percentualmente, l’Africa sub-sahariana ha la più alta percentuale, poiché le stime indicano che almeno un bambino su tre (avente meno di 15 anni) lavora. Nelle altre regioni del mondo le percentuali sono tutte al di sotto del 20%. Nell’Asia-Pacifico, in America Latina e nei Caraibi l’incidenza è rispettivamente del 19 e 16%. Nel Medio Oriente e nel Nord Africa è del 15%. I paesi sviluppati e le economie in transizione hanno in assoluto il minor numero di bambini al lavoro.
L’“economia informale” è un eufemismo figlio dell’ipocrisia politicamente corretta del linguaggio internazionale, che con questa espressione designa ogni forma di lavoro non regolato, sommerso, precario, occasionale, spesso caratterizzato dall’assenza dei requisiti minimi di sicurezza e da retribuzioni misere. I bambini lavorano soprattutto nell’economia informale, in piccole e piccolissime aziende, in tutti i settori economici e con forti connessioni con la produzione formale. Ad esempio, in agricoltura, in grandi piantagioni organizzate, dove è possibile trovare il subappalto a imprese di dimensione familiare. O ancora nei settori manifatturieri, in cui multinazionali o imprese di dimensione nazionale si avvalgono di parti o materiali provenienti da piccoli laboratori o da lavoratori a domicilio: la produzione di abbigliamento costituisce un vistoso esempio.
Rafforzare l’impegno politico per l’abolizione del lavoro minorile nel mondo, tradotto in concreto, significa anche sostenere un cambiamento in termini di allocazione di risorse. E questo appare in stridente contrasto con gli ultimi orientamenti e scelte del Governo italiano, poiché l’Italia è in coda sul tema della cooperazione allo sviluppo, contribuendo con appena lo 0,15% del prodotto interno lordo (PIL), contro la media della UE allo 0,34%, che appare già una percentuale ampiamente inferiore a quanto auspicabile.
Tali politiche dovranno, invece, essere sostenute con forza presso le istituzioni internazionali (OCSE, Banca Mondiale, Organizzazione mondiale del Commercio, Banche di sviluppo regionali, Fondo Monetario Internazionale, Agenzie di Credito alla esportazione etc.), insieme a dei programmi adeguati, quali punti centrali degli accordi internazionali, in coerenza con gli impegni assunti con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (tra cui la Dichiarazione tripartita del 1998, assunta da tutti i governi) e con gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio.
In Italia, la Carta di Impegni del 1998, sottoscritta dai sindacati, organizzazioni datoriali e Governo di centro-sinistra, aveva rappresentato un importante passo avanti nella lotta allo sfruttamento minorile nel nostro paese. Essa assumeva, come coordinate per un intervento integrato a livello nazionale, l’importanza di una politica sociale di inclusione e di assistenza che intervenisse sulle cause materiali di disagio delle famiglie e di una politica scolastica che potesse intervenire sui fenomeni di dispersione ed abbandono dei più giovani. Essa è stata abbandonata e disattesa sia da parte del Governo che da parte delle stesse imprese, segnando un’inversione di tendenza sul fronte dell’impegno. Il programma dell’Unione prevede, oltre che l’istituzione di un Garante per l’infanzia e l’adolescenza, un Osservatorio nazionale sulla dispersione scolastica e sul lavoro minorile. Da qui dovrà ripartire il Paese, per garantire pari opportunità di futuro e felicità per tutti.