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La Nuova Frontiera dei Diritti-di Bruno Trentin

La Nuova Frontiera dei Diritti di Bruno Trentin Occorre fare i conti con un dibattito strisciante che finisce con l'offuscare la linea di confine che esiste fra una strategia riformatrice della s...

02/04/2003
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La Nuova Frontiera dei Diritti
di Bruno Trentin

Occorre fare i conti con un dibattito strisciante che finisce con l'offuscare la linea di confine che esiste fra una strategia riformatrice della sinistra e una concezione della politica che l'attesta sulla governabilità dell'esistente e in buona sostanza sul trasformismo. Questa linea di confine è rappresentata dal posto assegnato ai diritti in un progetto vincolante della sinistra riformatrice. Sono i diritti esistenti e la loro compiuta realizzazione la "fine della strada", senza porsi il problema di governare verso un orizzonte di maggiore democrazia e di nuovi diritti, il cambiamento e le trasformazioni della società ineludibili, incidendo sul loro percorso? Oppure si tratta di una "mistica" ingannevole, il segno di una chiusura conservatrice di fronte alla "modernità" e, soprattutto, di una parzialità corporativa che non potrà mai costituire l'identità della sinistra?
Credo che questi due orientamenti siano di fatto presenti nel dibattito a sinistra anche quando non sono proclamati come tali e espressi in modo distorto, anche in ragione della degenerazione personalistica del confronto politico. E credo che il secondo sia altrettanto pericoloso del primo: in nome della "realpolitik", rischia di segnare, alla fine, un divario, una rottura con una grande tradizione libertaria e democratica, con la quale si è faticosamente ricongiunta in questi anni grande parte della sinistra occidentale, ex comunista, socialista, verde, ritornando così alle radici della socialdemocrazia.
L'identità della sinistra, si dice, non può risiedere nei diritti formali ma nel "cambiamento" reale e nella modernità. Se ne può dedurre, che i diritti rivendicati in passato, siano diventi i simboli della conservazione, i rottami di una storia superata, o il segno di una forma corporativa di autodifesa.
Per valutare il fondamento di questa nuova (e vecchissima) ideologia bisogna prima di tutto intenderci sulla natura del "cambiamento", o, in un'altra versione, della "modernità".
Ora, dopo due guerre mondiali, i totalitarismi del XX° secolo e l'olocausto, sono finiti i tempi, in cui la sinistra poteva identificare la modernità e il cambiamento, con un percorso lineare verso il progresso. La modernità era ed è intrisa di progresso possibile come di reazione e di regressione; aperta come è ad esiti anche radicalmente diversi, che dipendono dalle lotte civili degli uomini e delle donne in carne ed ossa, e che non sono affatto "già scritti" nel grande libro della storia. Per queste ragioni le forze della democrazia hanno sempre voluto segnare e condizionare la modernità e la sua stessa natura, con l'affermazione di sempre nuovi diritti, come traguardi da conquistare, per fronteggiare le sfide del cambiamento. È stato così dal "Bill of Rights" alla Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea. Altro che fotografia dell'esistente e sanzione di diritti già acquisiti!
Non dobbiamo smarrire la grande lezione del XIX° secolo e XX° secolo, quando il movimento operaio dovette combattere l'autoritarismo e la reazione riscoprendo la dimensione dei diritti o delle libertà come li chiama, oggi, Amartya Sen. Certo, all'inizio, essi furono impugnati, come mezzi per ridurre le disuguaglianze sociali e le forme di sfruttamento e di oppressione. Ma essi ci appaiono oggi come le sole grandi e durature conquiste del movimento operaio nella sua lotta per l'uguaglianza. Non quest'ultima, ma i diritti si rivelarono come i fini principali di una politica riformatrice; una priorità, e una condizione per aggredire poi le disuguaglianze sociali e l'esclusione civile di milioni di esseri umani che le precedono e le accompagna.
Questo è infatti il retaggio duraturo del progresso affermato dalle lotte sociali del XX° secolo: la libertà di associazione e di sciopero, il suffragio universale, il "welfare state", la parità fra uomo e donna, la democrazia parlamentare; anche se sono stati continuamente rimessi in discussione o, qualche volta, svuotati di contenuto. E per questa ragione, che in tutte le epoche, all'affermazione di determinati diritti come traguardi da conseguire in ogni momento, si sono accompagnati tentativi di utilizzare la deregolamentazione fattuale suscitata dai cambiamenti e dalle trasformazioni sociali per tornare indietro, e per fare valere la reazione delle forze conservatrici; per imporre una regressione politica e culturale.
Questo è stato in questi anni l'atteggiamento della parte più conservatrice del padronato e della destra italiana, di fronte alle nuove contraddizioni suscitate dai processi di trasformazione dell'impresa e del mercato del lavoro (inseparabili dall'avvento delle nuove tecnologie dell'informazione). Come la contraddizione esistente fra un lavoro caricato di nuove responsabilità e una occupazione incerta, precaria, insicura, almeno per il maggior numero: nell'incapacità di cercare una soluzione a questa contraddizione attraverso il dialogo e l'immaginazione di nuovi diritti, come il diritto alla formazione permanente, è prevalso, infatti, in una parte del mondo imprenditoriale - ma, soprattutto nei suoi corifei - un riflesso condizionato, di ritorno alla reazione autoritaria degli anni '50.
Prima osservazione: non farsi fuorviare, quindi, dalla "modernità" e non confondere la reazione delle classi dominanti con il riformismo.
È questo l'errore compiuto, già 10 anni fa, dagli avversari dell'art.18, non avvedendosi che questa prima conquista dell'autunno caldo, acquistava un nuovo valore nel mercato del lavoro della flessibilità e della precarietà, e in modo particolare per tutti i rapporti di lavoro a tempo determinato; e poteva, e può, aprire la strada per tutelare tutte le forme "atipiche" di rapporto di lavoro che attendono norme specifiche, adatte alla dimensione dell'impresa e alla personalizzazione del rapporto di lavoro, che rendano possibile l'esercizio di un diritto. Ed è questo l'errore, non so quanto inconsapevole, di quanti vogliono offrire nuove ragioni alla divisione dei lavoratori e alla campagna contro la tutela individuale nei confronti del licenziamento (economico o antisindacale? vallo a dimostrare!) senza giusta causa, sostenendo un referendum per estendere l'obbligo del reintegro sancito dall'18, alla bottega e al rapporto di lavoro personalizzato. Seconda osservazione. I diritti, anche i diritti fondamentali hanno una loro storia? Certamente. Ma anche questa storia non è lineare.
Alcuni diritti finiscono per passare nel dimenticatoio o perché pienamente realizzati, in tempi ormai remoti o perché, all'opposto, in parte o in tutto superati dalle trasformazioni della società. Certamente il contratto di lavoro a tempo indeterminato è uno di questi, anche laddove sopravvive formalmente. Alcuni altri diritti conservano, invece, una drammatica attualità: come l'obbligo scolastico e il divieto del lavoro dipendente per i minori, o come la tutela dei giovani, delle donne, delle minoranze etniche o religiose contro qualsiasi discriminazione, anche nei trattamenti salariali. Per non parlare degli immigrati, qualcuno ha forse già dimenticato la campagna recente, con i suoi echi in una certa letteratura economica, in favore della diminuzione dei salari per i nuovi assunti? Altri diritti, infine, conoscono una loro evoluzione e un loro divenire, come la trasformazione del diritto all'educazione di Condorcet, nel diritto allo studio della Costituzione italiana, e nel diritto alla formazione permanente, (tutto da realizzare) della Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea.
A dimostrazione che i diritti fondamentali hanno una loro storia, un loro divenire; che segnano sempre una nuova frontiera verso la quale spostare i confini della "polis", della democrazia reale. E che contrariamente al giudizio di un certo Marx che denunciava il carattere mistificatorio dei "diritti formali borghesi", in quanto erano in contraddizione con le condizioni "reali", di vita, di lavoro e di potere delle classi subalterne, questi "diritti formali borghesi" dimostrarono di essere la leva principale per superare queste contraddizioni, salvaguardando la democrazia e le libertà individuali, come riconobbe lo stesso Marx in altre parti della sua ricerca .
La nostra opposizione a questa guerra preventiva non trae forse la sua forza di convinzione, dall'assenza di una legittimazione delle Nazioni Unite; e non punta, ora, a restituire alle Nazioni Unite una sovranità effettiva (condizione di una loro successiva riforma), e la loro funzione di fonte principale e ineludibile del diritto internazionale? Non diventa questo, oggi, l'obiettivo principale di un movimento per la pace?
Le nuove frontiere dei diritti formali sono le nuove frontiere della democrazia per una forza di sinistra. Ma è proprio nel delineare, oggi, di fronte alle trasformazioni della società civile, una nuova frontiera dei diritti, che la sinistra e lo stesso movimento sindacale risentono di un limite difensivo e conservatore. Questi si esprimono per esempio nella sottovalutazione o nel sussiego con il quale affrontano il tema del diritto alla conoscenza e al sapere, della lotta contro la frattura sociale che si delinea nel mondo fra chi possiede conoscenza e potere e chi ne è escluso. C'è un ritardo del sindacato nel percepire la centralità di una proposta per il controllo sulle forme di organizzazione del lavoro capaci di valorizzare le risorse culturali e professionali e il bisogno di apprendere della persona che lavora; o nel delineare una riforma dello stato sociale che risponda alla sfida dell'invecchiamento della popolazione. Anche per ricostruire nel mondo del lavoro e nella società tutta una solidarietà tra diversi intorno al perseguimento di diritti universali in cui tutti si possono riconoscere e costruire su obiettivi come questi, nuove e più lunghe alleanze.
La questione dirimente, infatti, è l'attitudine dei diritti universali, sul piano nazionale e sul piano internazionale, a costruire solidarietà fra diverse categorie di cittadini, in primo luogo nell'universo delle categorie più deboli, superando ogni dimensione corporativa, e mettendo in questione proprio i privilegi dei ceti e delle corporazioni.
L'altra faccia dei diritti fondamentali che conquista una forte attualità è quella che impegna le forze politiche e sociali che li rivendicano, a perseguire un'azione incessante per assicurare subito a questi diritti le risorse materiali e umane necessarie alla loro realizzazione, al loro effettivo esercizio. In questo senso essi affermano non solo una prospettiva ed un futuro possibile ma un vincolo nel presente; quello della coerenza, senza deviazioni, nell'azione per la loro realizzazione "qui et ora". Un vincolo che consente di affermare una trasparenza e una eticità dell'azione politica, fuori da un linguaggio di iniziati della politica come monopolio di alcuni ceti che si autodefiniscono come "destinati" al governo, per nascita o per mestiere.


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