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La chiamata diretta: Un eccesso di autonomia che non giova alle scuole

di Pino Patroncini

05/04/2012
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Retescuole

E’ agghiacciante la superficialità con cui questa questione della chiamata diretta introdotta ( introdotta, non sperimentata!!!!) in Lombardia viene presentata all’opinione pubblica attraverso i media, come se nel paese che nella sua lunga storia ha accumulato la più lunga tradizione di clientelismo e di corruzione (dai clientes dell’antica Roma alle contemporanee collusioni mafiose, dalla vendita delle cariche a quella delle indulgenze, che, per inciso, dovrebbe fare impallidire persino l’acquisto con soldi pubblici dei titoli di studio dei leghisti lombardi !) i principi dell’assunzione concorsuale nelle pubbliche amministrazione e della parità di accesso ai pubblici uffici, che i Padri Costituenti hanno voluto iscrivere negli articoli 97 e 51 della nostra Costituzione Repubblicana fossero un inutile orpello, una complicata e costosa petizione di principio, e non invece un preciso complemento a quegli articoli 3 e 33 della stessa Costituzione che prevedono che sia lo Stato e non il potere locale a offrire strumenti per il superamento delle differenze sociali (art. 3) attraverso la garanzia di due cose: un sistema uniforme di istruzione nazionale e la libertà di insegnamento (art.33).

Chi scrive non è contrario in sé ai principi dell’autonomia scolastica, che per altro il nuovo titolo quinto della Costituzione riconosce in qualche modo , anche come un limite all’interventismo di Stato e regioni. Per sottrarsi alla tentazione di una opposizione pregiudiziale basta ritornare col ricordo a quei periodi in cui per mettere in moto un po’ di didattica attiva nelle scuole occorreva passare per richieste alle autorità scolastiche , sotterfugi organizzativi e/o litigi con i capi di istituto. I milanesi, oggi investiti dalla nuova norma, ricorderanno bene la mobilitazione “contro la scuola noiosa”, quando (anni ottanta) l’allora ministro Falcucci vietò alle scuole elementari milanesi la loro “autonoma” (ante-litteram) consuetudine di accompagnare gli alunni in piscina per le lezioni di nuoto. Ma un conto è l’autonomia didattica e la “liberazione” delle risorse attive in cui si manifesta anche la libertà di insegnamento di cui all’articolo 33, un conto è una facilona e approssimativa autonomia amministrativa in cui quel che capita capita, col rischio che quel che capita sia nel migliore dei casi l’arbitrio dei capi di istituto ( e ve ne sono di tutte le razze!) e nel peggiore il dare la stura ai peggiori vizi della nostra italica tradizione , con tutte le conseguenze del caso. E questo è ancor più pericoloso in tempi di ristrettezze economiche e di penuria di risorse umane, perché qui la parola autonomia potrebbe essere ( ed è!) solo un eufemismo che nasconde un altro significato: quello di “arte di arrangiarsi”.

Insomma per certe cose l’autonomia serve, per certe altre non funziona proprio. Proprio sul terreno delle nomine queste cose le abbiamo sperimentate: la norma attuale nazionale non impedisce che siano le scuole ad usare le graduatorie, fatte secondo regole nazionali, per chiamare il personale non solo “supplente temporaneo”, ma anche annuale. E’ una norma che, varata nel 2000, doveva enfatizzare proprio l’autonomia delle scuole, l’unità scolastica come sede di riferimento primaria per il tutto. Ebbene: sono pochissime le province italiane in cui ciò avviene perché la scuole hanno preferito riaffidarsi al “coordinamento” degli uffici scolastici provinciali, vale a dire a una finzione per cui ufficialmente le scuole fanno i contratti ai nuovi assunti, ma in realtà la nomina arriva dal “vecchio provveditorato”. Insomma, all’italiana, salvata l’apparenza la sostanza non è cambiata: si è tornati alle nomine provinciali, anche perché chi non ci è tornato, tra contemporaneità di nomine da parte di scuole diverse, rinunce e quant’altro, ci ha impiega più tempo a gestire le nomine col nuovo metodo “liberale” che col vecchio metodo “burocratico”.

Eppure qualche campanello d‘allarme dovrebbe suonare ai fautori di questo “autonomismo” liberista e scriteriato.

Oggi per esempio il giornale inglese (e la scuola inglese è un modello di autonomia che rasenta la privatizzazione) The Independent titola in prima pagina “Education’s great class divide”. Bene il “Great Divide” , per chi non lo sapesse è lo spartiacque delle Montagne Rocciose che separa i bacini del Pacifico da quelli dell’Atlantico: il termine mette in risalto la divisione di classe che si sta determinando nelle scuole britanniche tra ricchi e poveri per l’effetto combinato dell’eccesso di autonomia (tradizionale in Gran Bretagna, ma accentuato negli ultimi decenni) e di tagli alle risorse (13% in meno di investimenti, taglio dei sussidi per testi mense e frequenze, 22% di tagli alle risorse per l’infanzia). Si crea così una spirale terribile per cui aumentano gli insuccessi dei poveri, le scuole dei quartieri popolari scendono nelle valutazioni generali, gli insegnanti nel limite del possibile le evitano sempre più spesso e non si vede la luce di uscita del tunnel in cui ci si infila.

Non è una novità: già alcuni anni fa nel suo libro “Insegnanti al timone” Norberto Bottani, insospettabile ricercatore OCSE pro-autonomia nonché consigliere “bipartisan” dei governi italiani di entrambe i colori, metteva in guardia dai “loop” dell’autonomia, citando il caso olandese, dove la segregazione sociale era stata proprio e paradossalmente favorita dall’eccessiva autonomia delle scuole, che aveva permesso di costruire sì una scuola per ciascuno ma non una scuola per tutti, al punto che Bottani parlava addirittura di un’autosegregazione degli strati più poveri della popolazione e, soprattutto, degli immigrati i quali preferivano ambienti sociali a loro omogenei ancorchè degradati piuttosto che ambienti scolastici misti ma troppo a misura delle classi benestanti e colte. E’ un fenomeno che in qualche modo si è potuto rintracciare anche da noi con la preferenza degli immigrati per l’istruzione professionale e per la formazione professionale, un fenomeno che, guarda caso, anche qui la giunta Formigoni non si è preoccupata di ostacolare ma anzi ha favorito con le sue norme sulla istruzione e formazione professionale lombarda, che rilanciano il ciclo professionale breve (triennale) e l’uscita dalla scuola a 17 anni, proprio quando il piano UE “Europa 2020” (a differenza di “Lisbona 2010”, che ragionava ancora su un titolo secondario qualunque) ci chiede di puntare all’uscita con diploma secondario superiore utile per il passaggio all’università e agli studi terziari ( cioè, per noi, a 19 anni!). Possibile che nessuno si accorga di queste incongruenze e tutti siano pronti a sposare queste ” praticonerie” cieche e cariche solo di un pregiudizio, questo sì tutto ideologico?!

Sabato scorso il giornale belga “Le soir” ci raccontava invece di come i liberali francofoni del Mouvement Reformiste vogliano sottoporre a valutazione, per poi chiuderle, le scuole ZEP della comunità francofona, perché, dicono, è inutile dare finanziamenti aggiuntivi a scuole in cui le famiglie non vogliono mandare i figli e dove persino i professori preferiscono non essere ingaggiati. Le scuole ZEP ( acronimo per Zone di Educazione Prioritaria, denominazione mutuata dall’analoga esperienza francese) corrispondono un po’ alle nostre scuole a rischio, sono in quartieri poveri e socialmente disagiati e continuano ad essere caratterizzate da un alto tasso di bocciature. I liberali denunciano che le spese aggiuntive per queste scuole si sono decuplicate passando dallo 0,07% del budget scolastico del 1994 allo 0,62% del 2006, di cui un 45% serve per assunzioni di personale e un 65% per finanziare attività. E’ interessante notare che i liberali francofoni fanno parte del governo nazionale ( di difficile e lunga composizione) guidato dal socialista Elio Di Rupo, il cui partito invece è, insieme ai sindacati, un sostenitore della positività dell’esperienza delle ZEP oltre che il titolare del ministero dell’educazione della comunità francofona. Il Belgio è come Olanda e Gran Bretagna uno di quei paesi in cui l’autonomia scolastica è pressochè totale e vi si pratica l’assunzione diretta, “tecnicamente possibile” anche in ragione della penuria di insegnanti, la quale caratterizza anch’essa tutti e tre i paesi. Ma ciò non di meno provoca i problemi di cui sopra con le spirali di povertà, insuccesso scolastico e fuga degli insegnanti, che il sistema della chiamata diretta favorisce e non ostacola.

Di fronte a questi esempi è ancora più ridicolo che ad essere accusati di ideologismo siano coloro che si oppongono ad una legge per niente efficiente e al contrario fatta, a questo punto, solo per omaggiare i deliranti pregiudizi ideologici clerico-privatisti del baciapile Formigoni e quelli liberal-liberisti della laica Aprea.