FLC CGIL
Contratto Istruzione e ricerca, filo diretto

https://www.flcgil.it/@3924607
Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » La burocrazia che estingue gli studenti

La burocrazia che estingue gli studenti

Tra le tante promesse da marinaio di questo Governo, una delle meno credibili è sicuramente quella di puntare sull’innovazione investendo sulla formazione delle giovani generazioni. I lettori di ROARS sono ben consapevoli, per esperienza personale prima ancora che attraverso la lettura del blog, delle fosche prospettive di chi lavora (o vorrebbe lavorare) nella ricerca italiana. In questo post mostrerò che anche la situazione degli studenti è altrettanto grave, e purtroppo non offre segnali di miglioramento. Dunque, elaborerò una proposta provocatoria (ma neanche troppo) che potrebbe invertire la tendenza.

27/06/2015
Decrease text size Increase text size
ROARS

MArco Viola

Laureati 30-34enni 2014 Eurostat

1. Numeri: di male in peggio  – Giovani tra i 30 e i 34 anni in possesso di una laurea (o titolo equivalente): tra 26 e 27%. Purtroppo però non si tratta delle statistiche del nostro paese (e se anche lo fossero, saremmo comunque indietro di 11 punti percentuali rispetto alla media UE28), ma dell’obiettivo che l’Italia dovrebbe raggiungere entro il 2020 secondo la strategia Europa 2020. La percentuale italiana per il 2014, secondo Eurostat, sarebbe invece del 23,9%. Siamo cioè secondi solo alla Turchia – a patto che la classifica sia letta dal basso verso l’alto.

Guardando alle statistiche, un ottimista potrebbe comunque trovare conforto nel constatare un rapido miglioramento: solo 5 anni fa, nel 2009, lo stesso indicatore era più basso di ben 4,9 punti percentuali, cioè pari a 19%. Purtroppo, per quanto uno possa rallegrasi di questo miglioramento, i dati sulla situazione presente non ci permettono di condividere un simile ottimismo riguardo al futuro. Giacché stiamo parlando di 30-34enni, è  verosimile che questa “impennata” (si fa per dire: nello stesso lasso di tempo la Lituania è passata da 40,4% a 53,3%) registri la prima generazione dei laureati delle lauree triennali figlie del Processo di Bologna.

Nel corso dello stesso lustro, gli immatricolati a lauree triennali e ciclo unico sono calati  a soli 269.200 nell’A.A. 2014/2015, dai 297.098 che erano dell’A.A. 2009/2010 – anche se l’emorragia di ingressi ha radici più antiche: altri sei anni prima, nell’A.A.2003/2004, erano 337.900 (fonte: Anagrafe degli Studenti Universitari). Un calo di circa un quinto, che avviene in un contesto in cui la popolazione 19enne rimane sostanzialmente immutata (cfr. ISTAT).

Anno Accademico

Iscritti (Anagrafe studenti) % Laureati 30-34enni (Eurostat)

2009-2010

1.788.428 19.0

2010-2011

1.791.727 19.9

2011-2012

1.770.810

20.4

2012-2013 1.728.965

21.9

2013-2014 1.700.666

22.5

2014-2015 1.637.258

23.9

Una situazione del tutto analoga si riscontra anche guardando alla situazione dei dottorandi (che sono, de iure, studenti universitari di terzo livello): l’ultimo rapporto presentato dall’ADI (Associazione Dottorandi e dottori di ricerca Italiani) mostra che in Italia i dottorandi sono molti meno che negli altri paesi europei, e pur comunque in calo.

Le ragioni di questo calo sono sicuramente molteplici. Una di queste è l’introduzione dei criteri di docenza che hanno comportato, in molti atenei, l’introduzione di molti corsi ad accesso programmato. Un’altra è sicuramente la diffusione di una certa pubblicistica che sconsiglia ai giovani di intraprendere gli studi, attingendo da e alimentando il luogo comune che “chi non ha laurea trova lavori pagati meglio e/o più facilmente”; una vulgata infondata, stando ad AlmaLaurea – e che tuttavia sembra aver convinto anche il Primo Ministro, che lo scorso ottobre spiegava al Presidente della CRUI la sua ricetta per l’innovazione, constante su per giù di meno università e più garage stile Silicon Valley.

Oggi però voglio concentrarmi su altri due cause correlate, tanto banali da essere spesso presi sottogamba: il diritto allo studio e la tassazione studentesca. Se non sufficienti a spiegare il calo degli iscritti, i dati che discuterò dovrebbero comunque bastare a dimostrare che questo governo non ha nessuna intenzione di migliorare l’accessibilità degli studi (e di conseguenza il numero dei laureati). Al contrario, le scelte di questo governo così come dei precedenti stanno lentamente ma inesorabilmente sbarrando le porte dell’istruzione superiore alle fasce meno agiate della popolazione.

E lo stanno facendo con la ferocia poco appariscente del new public management: per via burocratica, con le circolari e i regolamenti, senza dare nell’occhio con manovre a cielo aperto e senza coinvolgere né il Parlamento né nessun altro interlocutore, ed anzi ignorando quelle istituzioni che hanno espresso perplessità (come ad es. il CNSU).

2. Diritto allo studio, chi l’ha visto? – La situazione del diritto allo studio universitario (DSU) in Italia non è delle migliori – a voler usare un eufemismo. Dal punto di vista finanziario, l’Italia ha storicamente investito molto meno di paesi europei quali Germania, Francia e Spagna (vedi immagine). Ma ci sono anche problemi di natura legislativa: l’onere normativo e finanziario è infatti condiviso da Stato e Regioni, con notevoli margini di ambiguità. Il segno più evidente dell’inadeguatezza della legislazione vigente è l’esistenza (istituzionalizzata) degli idonei non beneficiari: studenti i quali, pur possedendo de iure i requisiti per ricevere la borsa di studio, de facto non la ricevono per insufficienza di fondi.

fig2

Negli ultimi anni, alcuni economisti e politici (tra cui, in passato, anche l’attuale Ministra Giannini) hanno proposto di passare da un  modello di diritto allo studio “continentale” (borse di studio a fondo perduto e altri servizi) a un modello “anglosassone” (prestiti d’onore), a cui eventualmente accompagnare un aumento delle tasse universitarie – forse ignari del poco successo delle pregresse iniziative per introdurre i prestiti studenteschi.

Rimandando il lettore interessato al quadro normativo-economico del DSU all’articolo “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il male” (no, non è un errore di battitura), in questo articolo intendo accennare tre vicende recenti che evidenziano una scarsa sensibilità (se non addirittura l’avversione) del legislatore sull’argomento:

1) la legge 128 dell’8 novembre 2013, che converte modificandolo il decreto-legge 104/2013, aveva accolto un emendamento proposto dalla Deputata Celeste Costantino (Sinistra, Ecologia e Libertà), il cui scopo era destinare al DSU (per la precisione: al Fondo Integrativo Statale) il 3% dei proventi dei beni confiscati alle mafie (che confluiscono nel Fondo Unico di Garanzia). Un’iniziativa soprattutto simbolica, che tuttavia avrebbe potuto garantire, nel 2013, un supplemento di 28 milioni di €, pari a circa 5/7mila borse di studio. ‘Avrebbe potuto’ e non ‘ha’ poiché, come lamentato in una conferenza stampa tenutasi alla Camera lo scorso Novembre, il Governo non ha mai dato attuazione alla legge.

2) come abbiamo segnalato in un recente redazionale, nonostante l’enfasi retorica della Ministra sul diritto allo studio reale come priorità, il Ministero non sta nemmeno adempiendo nemmeno ai compiti di ordinaria amministrazione: pubblicare un DM che aggiorni le soglie e gli importi della borsa per l’A.A. 2015-2016. La scadenza sarebbe il 28 febbraio – ma l’anno scorso fu pubblicato il 14 luglio. Ciò diventa particolarmente grave alla luce del prossimo punto:

3) il Governo rivendica come un successo la recente riforma del calcolo dell’ISEE, che avrebbe il merito di stanare meglio del precedente i falsi positivi – cioè i ‘finti indigenti’. Tuttavia, come spiega l’organizzazione studentesca LINK (che sta lanciando una campagna di rivendicazioni sul diritto allo studio), il nuovo calcola ha condannato molti studenti ad oggi beneficiari di borsa a diventare dei “falsi negativi”:

Le prime proiezioni sono arrivate dalla Toscana, dove l’Istituto regionale programmazione economica (Irpet) ha previsto che il prossimo anno rischiano di perdere la borsa di studio il 9% degli studenti che nel 2014 erano risultati abbastanza poveri da avere diritto a un aiuto. Un altro 5%, invece, subirà una riduzione del bonus”

dichiara Alberto Campailla di LINK al Fatto Quotidiano. Qualche giorno dopo infatti, dalle prime stime del Ministero del Lavoro emerge come il nuovo calcolo dell’ISEE abbia reso il 51% degli universitari ‘più ricco’ – sulla carta. Di conseguenza, a meno che le regioni non adeguino la soglia che regola l’idoneità alla borsa (ad oggi solo tre lo hanno fatto), una folta schiera di studenti fino ad oggi ritenuti idonei sarà espulsa (de iure) dal welfare studentesco. Per via burocratica, senza clamore.

3. Tasse, chi più ne ha più ne metta – L’articolo 5 della legge 306/1997 limitava la quantità di fondi che un ateneo poteva esigere dagli studenti in forma di contribuzioni a una cifra pari al 20% di quanto incassato dall’ateneo per mezzo del FFO. Stante in vigore questo vincolo, ci si aspetterebbe che gli atenei, durate la fase di tagli del FFO inaugurata dalla 133/2008 (finanziaria del governo Berlusconi) avrebbero dovuto giocoforza reagire adeguando al ribasso anche le tasse studentesche. Così non è stato; al contrario, molti atenei hanno compensato il calo dei fondi statali aumentato la contribuzione studentesca, che ha costituito una voce sempre più importante del finanziamento del sistema (vedi la tabella sottostante, tratta dal Rapporto ANVUR 2013, pag. 163). Si noti che, seppure la quota totale delle entrate contributive non sia cresciuta in modo vertiginoso dal 2008 al 2012, questa crescita è concomitante a una leggera diminuzione del numero degli iscritti a partire dal 2010.

Immagine

Tuttavia, la legge del 1997 aveva una debolezza: si sanciva un limite, ma nessuna sanzione per chi lo violasse. Le organizzazioni studentesche cominciarono a sporgere – e vincere – ricorsi contro quegli atenei che violavano il limite del 20%. Per ovviare a queste irregolarità sempre più diffuse, il Governo Monti operò una specie di condono a beneficio degli atenei (e contro gli studenti): nella spending review del 2012 ridefinì il limite portando fuori dal computo gli studenti fuoricorso (per cui non sarebbe più esistito alcun limite), e permettendo così agli atenei di tassare (molto) più cospicuamente anche gli studenti in corso.

Contestualmente, in un regime di strozzamento del turnover, lo stesso Governo introduce, nell’ambito del Dlgs 49/2012, un Indicatore di Sostenibilità Economica e Finanziaria (ISEF) che ‘premia’ – assegnando loro più punti organico – gli atenei che ottengono più fondi dal FFO e dalla contribuzione studentesca. Mutuando le efficaci tabelle redatte da  Beniamino Cappelletti Montano in un’analisi sull’allocazione dei punti organico nel 2013:

dove

∆ = 15% × [(82% entrate complessive nette) – (spese personale + oneri ammortamento)]

e dove

Vincolare la contribuzione studentesca ai punti organico (da cui dipendono, oltre alle promozioni interne, anche le assunzioni dei non strutturati) significa dunque legare a doppio filo il destino dei ricercatori precari e quello degli studenti (qua contribuenti). A pensare male, si potrebbe pensare che Profumo, memore della protesta dei ricercatori del 2010, abbia dato attuazione al vecchio motto divide et impera, pregiudicando eventuali sodalizi tra le categorie e preparando invece il terreno a una “guerra tra poveri”.

L’unico elemento normativo che ‘spinge’ in una direzione diversa, va detto, è rappresentato dall’introduzione del computo del costo standard per studente in corso nell’allocazione del FFO, a partire dal 2014. Nonostante alcune criticità (ad es. l’assenza di qualsiasi riconoscimento degli iscritti fuoricorso, con il conseguente rischio di una loro ostracizzazione), questo criterio ha se non altro l’indiscutibile merito di fornire agli atenei un incentivo (praticamente l’unico) per competere sul numero di studenti.

3.1  … come volevasi dimostrare

L’introduzione del costo standard (il cui peso è stato finora limitato: il 20% della quota non premiale nel FFO 2014; il 25%   nel FFO 2015 – anziché il 40%, come inizialmente pronosticato da Giannini in una lettera al presidente CRUI) non sembra comunque sufficiente, nel quadro normativo più generale, a calmierare una tendenza generalizzata all’aumento della contribuzione studentesca. Come prevedibile, negli ultimi anni la tassazione è cresciuta. A dircelo è nuovamente un’organizzazione studentesca: l’Unione degli Universitari (UDU) [NdA e il fatto che la maggior parte elle analisi su diritto allo studio e contribuzione studentesca siano svolte dalle organizzazioni studentesche anziché commissionate dal Ministero è interpretabile come un ulteriore spia del disinteresse del legislatore in merito a queste vicende].

Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’organizzazione, illustra con preoccupazione i risultati di una recente analisi:

L’aumento in un solo anno del 5% della tassazione media sul livello nazionale rappresenta l’aumento più forte degli ultimi 5 anni […] Il dato peggiora ulteriormente se osservato sugli ultimi 10 anni: come denunciamo da tempo dal 2005 ad oggi le università italiane hanno deliberato un aumento esponenziale delle tasse universitarie, di oltre il 50%. In 10 anni siamo passati da una tassazione media di 736,91 € ad una di 1112,35 €.

Ma non è finita qui. Qualche settimana fa l’Università di Torino ha prospettato un aumento generalizzato della contribuzione studentesca (tra i 100 e i 300€ – e ancora più marcati per i fuoricorso), nonostante negli ultimi anni abbia registrato un aumento delle entrate dovute al FFO, causate soprattutto dall’introduzione del costo standard che ha premiato l’aumento delle immatricolazioni nell’ateneo sabaudo (in controtendenza col resto dell’Italia). Che questa mossa sia motivata in buona parte dalla volontà di aumentare i punti organico non è un mistero: alcuni insider che hanno partecipato al tavolo mi hanno confermato anzi che si tratta di una motivazione esplicitata dal tavolo di lavoro, che avrebbe persino calcolato la quantità di tasse studentesche necessarie a reperire ogni punto organico [per curiosità: la cifra del rincaro dovrebbe aggirarsi intorno ai 25€ per ognuno degli oltre 60.000 studenti di UniTO]. Fortunatamente, nel caso di Torino non si è verificato l’effetto “guerra tra poveri”: la proposta sta incontrando una forte resistenza non solo da parte della rappresentanza studentesca (Studenti Indipendenti – affiliati a LINK), ma anche da una nutrita rappresentanza di ricercatori (il Coordinamento UniTO, nato in seno alle proteste contro la Legge Gelmini); le due compagini infatti rigettano con forza questa ‘proposta indecente ed auspicano invece che UniTO torni a perseguire uno degli obiettivi dichiarati dal suo Rettore a inizio mandato – e cioè quello di prendere sul serio la sua missione di università di massa (e di qualità) agevolando l’aumento del numero degli immatricolati, anche a costo di ridurre la tassazione [NB durante la stesura di questo articolo è emerso che il Rettore dell’Università di Torino ha dichiarato di voler posticipare l’adeguamento della contribuzione all’anno successivo – nonostante l’ultima parola spetti a Senato Accademico e CdA che si riuniranno a fine mese].

Messo di fronte a questo quadro allarmante (ad esempio il CNSU ha dato l’allarme nel marzo scorso), il Governo e più in generale le forze di maggioranza (ad esclusione di poche e purtroppo irrilevanti voci contrarie) non hanno dato segno di mostrare alcun interesse. In difesa degli studenti si sono mossi solo alcuni parlamentari del Movimento 5 Stelle, che hanno presentato una proposta di legge semplice ma incisiva per abrogare il “condono” di Profumo, ristabilendo così il tetto del 20% del FFO alle tasse universitarie (fuoricorso inclusi) previsto già dalla legge del ’97, e rinforzandolo con  un meccanismo sanzionatorio per gli atenei che violano il tetto (banalmente: il FFO per l’anno successivo sarà ridotto di una quota corrispondente allo sforamento del tetto – vanificando così il beneficio di eventuali sforamenti). Ma la proposta, lamentano i pentastellati, sarebbe stata insabbiata.

4. Una proposta ovvia ed una provocatoria (ma neanche troppo!) – Qualora non fosse chiaro, è opinione di chi scrive che l’Italia dovrebbe aumentare considerevolmente il numero dei propri laureati, e dovrebbe farlo innanzitutto abbattendo quelle barriere all’accesso che impediscono a decine di migliaia di giovani brillanti ma non abbienti di coltivare il proprio talento con un percorso di studi. Di contro ai profeti dell’overeducation, che constatando la scarsa innovatività del tessuto produttivo suggeriscono di adeguare al ribasso l’offerta di formazione, sono fortemente convinto che un aumento generalizzato delle competenze sia il primo e ineludibile passo per bootstrappare una ripresa economica nonché culturale. Anche chi fosse poco sensibile ai benefici sociali non monetizzabili dell’istruzione non mancherà di apprezzare che, dal momento che mediamente i laureati percepiscono nel corso della vita redditi più alti rispetto ai non laureati (cf. Almalaurea), aumentare il numero dei laureati potrebbe ragionevolmente comportare un aumento della quota IRPEF. In altre parole, formare e laureare più studenti costituisce un buon investimento per lo Stato anche già solo in termini economici, e giustifica dunque un maggiore impegno finanziario.

Pertanto, mi permetto di formulare due proposte – la prima banale e dovuta, la seconda un po’ più controintuitiva, ma a mio vedere ben argomentabile:

  1. Come suggerito a più riprese dalle associazioni e dalle istituzioni studentesche, il governo e le regioni dovrebbero rifinanziare il DSU fino a garantire la copertura delle borse a tutti gli idonei (circa 400 milioni), avvalendosi anche della bella iniziativa promossa dall’On. Costantino, a cui sarebbe bene dare rapida attuazione. Un passo successivo potrebbe essere una riformulazione della normativa che impegni le Istituzioni a garantire questa copertura, destinando invece eventuali eccessi a borse più piccole volte ad aiutare quella fascia grigia di studenti con un ISEE leggermente superiore ai massimi per accedere alla borsa – insomma, quei meritevoli che sono “abbastanza poveri per faticare a mantenersi gli studi ma non abbastanza poveri per accedere alla borsa”.
  2. Per quanto concerne le tasse universitarie, ho una proposta che forse potrebbe rivelarsi perfino più efficace di quella del M5S – e sicuramente più al passo con lo zeitgeist del new public management. Una summenzionata mozione del CNSU suggeriva di “scorporare la contribuzione studentesca dal calcolo dell’indicatore ISEF degli atenei evitando il rischio che gli stessi aumentino tale contribuzione contestualmente ai mancati introiti derivanti dai fondi statali e alla relativa carenza di organico“. Io credo invece che un governo veramente lungimirante, che avesse a cuore la sorte dei suoi studenti (e, attraverso il supporto ad essi, del suo Paese), potrebbe fare ancora di meglio. Premesso che (a) ritengo urgente un ripristino del turnover pari ad almeno il 100%, e che (b) non verserei lacrime se venissero aboliti i punti organico, sarei fortemente favorevole a una sostituzione dell’ISEF con un più lungimirante ISES (Indicatore di Sostenibilità Economica e Sociale), costruito in modo che i proventi delle tasse studentesche correlino negativamente con i punti organico erogati. L’adozione di un simile accorgimento significherebbe riconoscere in termini normativi – e dunque incentivare gli atenei a realizzare – una delle missioni dell’università moderna: quella di formare i cittadini e i lavoratori delle famigerate società ed economia della conoscenza (e non già “la classe dirigente del paese”, come vorrebbe una vulgata vetusta e inadeguata). Dal punto di vista pragmatico, gli effetti di questo indicatore sarebbero quelli di mettere i decisori dei singoli atenei di fronte a una scelta del tipo:

“aumento le tasse, diminuendo così il numero di assunzioni (e verosimilmente di studenti) oppure le diminuisco, aumentando così le mie possibilità di assumere (e verosimilmente anche il numero di studenti)?”

Chiaramente si potrebbero e anzi dovrebbero pensare alcune migliorie: ad esempio, l’indicatore potrebbe essere calibrato in modo da incentivare una distribuzione più progressiva della tassazione, tale cioè da gravare meno sulle fasce meno abbienti.

Sono incline a pensare che, qualora venisse introdotto un indicatore simile, la discussione sulle tasse a UniTo potrebbe prendere tutt’altra piega. Il Rettore sarebbe infatti incentivato a promuovere una riduzione della contribuzione studentesca: così facendo invoglierebbe molti più giovani ad iscriversi (ottenendo in prospettiva più soldi nel FFO per via del crescente peso del costo standard per studente), e, soprattutto, la scelta di far pagare meno gli studenti sarebbe premiata da una maggiore possibilità assunzionale anziché punita da uno strozzamento del turnover.

Rendere punti organico e proventi della contribuzione antagoniste (ribadisco: con le opportune calibrazioni) promuoverebbe un incentivo ad equilibrarle. Gli scenari che potrebbero emergere nei singoli atenei risulterebbero probabilmente sgraditi ai numerosi pasdaran dell’università di élite. Nonostante questo (o forse: anche in virtù di questo) si tratterebbe di scenari particolarmente interessanti


La nostra rivista online

Servizi e comunicazioni

Seguici su facebook
Rivista mensile Edizioni Conoscenza
Rivista Articolo 33
Filo diretto sul contratto
Filo diretto rinnovo contratto di lavoro
Ora e sempre esperienza!
Servizi assicurativi per iscritti e RSU
Servizi assicurativi iscritti FLC CGIL