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kataweb-La scuola dell'infanzia secondo il modello Moratti

La scuola dell'infanzia secondo il modello Moratti A cura di Paolo Citran * Cidi della Carnia (UD) __________________________________________ Quest' estate meteorologicamente stra...

23/08/2002
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Kataweb

La scuola dell'infanzia secondo il modello Moratti

A cura di Paolo Citran *

Cidi della Carnia (UD)
__________________________________________

Quest' estate meteorologicamente strana dev'essere risultata particolarmente
calda per il nostro Ministro dell'Istruzione, che in pieno tempo di vacanza
ha sfornato bozze su bozze di decreti e documenti vari.

Tra questi di rilevanza non secondaria appaiono essere le Indicazioni
Nazionali per i Piani Personalizzati delle Attività Educative nelle Scuole
dell'Infanzia e leRaccomandazioni per lo Svolgimento delle Attività
Educative nelle Scuole dell'Infanzia.

I due documenti mettono assieme, come solitamente avviene per documenti di
questo genere, in un avvertito mix pedagogico-didattico, quanto di più
aggiornato è possibile recuperare dall'elaborazione e la saggezza in campo
educativo a proposito della prima scuola, non tuttavia in modo tale da non
far marcare decisive diversità di opzioni rispetto alle idee più correnti.
Con le presenti annotazioni cercherò di evidenziare proprio gli aspetti
meno scontati e quindi più o meno problematici dei due documenti.

Orientamenti o prescrizioni?

La tradizione instauratasi con l'Istituzione della Scuola Materna Statale e
con i relativi Orientamenti del 1968 e proseguita con i successivi del 1991
(contro l'auspicio di allora del CIDI a favore dell'elaborazione di Nuovi
Programmi) tendeva a stabilire una proposta programmatica orientativa e non
prescrittiva, nel timore di irrigidire eccessivamente le attività didattiche
in età così precoce.

Tale timore appare decisamente superato dagli anonimi estensori di quest'
ultimo testo, che fanno un'ipotesi molto più prescrittiva e più strutturata
di quella della Commissione De Mauro, molto aperta alla problematicità del
rappordo educativo-didattico ed a non prefigurare una progettazione rigida
di tipo lineare in relazione al bambino di 3/6 anni.

Le Indicazioni nazionali della Moratti, invece, precisano immediatamente il
loro carattere prescritttivo ed il fatto che esplicitano i livelli
essenziali di prestazione che tutte le Scuole dell'Infanzia del Sistema
Nazionale di Istruzione sono tenute ad assicurare ai fini di garantire il
diritto personale sociale e civile dell'istruzione e alla formazione di
qualità delle bambine e dei bambini.

Questo aspetto del documento morattiano ci sembra possa essere
condivisibile, nella misura in cui si riesca nella pratica a superare un
approccio che potremmo definire scolasticistico e grettamente valutativo
(non siamo forse in una fase di eccessiva dilagante preoccupazione
valutativa?).

Voglio dire che il problema è che le competenze che definiscono gi obiettivi
specifici di apprendimento debbono indicare più l'impegno preciso, ma non
ossessivo, dell'insegnante in vista del consaseguimento di esse, che l'avvio
di un processo di differenziazione discriminante tra i soggetti che tali
competenze dovrebbero conquistare. Un punto quindi che richiede la saggezza
di un estremo equilibrio che, partendo dalle diffenziazioni, non vada verso
le disuguaglianze, ma semmai verso la compensazione di svantaggi pregressi.

Carattere indicativo si attribuisce invece alle Raccomandazioni, un specie
di trattatello pedagogico-didattico che vuol limitarsi a suggerire e non ad
imporre, in nome della libertà di insegnamento e di quanto definito dal POF
di ciascuna scuola.

Non è mia intenzione imbarcarmi in un confronto tra gli Orientamenti
(pienamente vigenti, sia ben chiaro). Indicazione e Raccomandazioni mi
sembra abbiano un maggiore indice di leggibilità, sono meno "difficili", ma
anche evidenziano un minore scavo. Direi che emerge un certo efficientismo
managerialistico, un'eccessiva assertività delle enunciazioni, forse anche
un difetto di sensibilità e di spirito empatico, un richiamo rituale alla
"persona", un'impostazione pluralistica che pare "dovuta" più che "sentita"e
"convinta".

Il portfolio: strumento per la crescita o schedatura precoce?

Una novità del documento in esame è rappresentato da un Portfolio delle
competenze individuali che documenti sin dall'esperienza scolastica più
precoce il processo di conquista di tali acquisizioni, destinato ad
accompagnare il bambino anche nei suoi futuri percorsi di apprendimento.

Elementi positivi e dubbi: il portfolio sarà uno strumento
descrittivo/narrativo/fenomenologico che annoti i processi ed i
comportamenti con cauta ed attenta professionalità? O rischierà di essere
uno strumento stigmatizzante per tutta la carriera scolastica, generatore
del classico effetto Pigmalione, influenzando scorrettamente chi succederà
alle docenti della materna, aderendo ad una sorta di meccanico determinismo
che definisca sin pressoché dall'inizio i destini del piccolo cittadino?
Un dubbio sfiora chi scrive e forse anche chi legge, dubbio che può essere
dissolto solo in base alla cognizione di causa circa la saggezza pedagogica,
l'equilibrio e la professionalità dell'insegnante che produce e dell'
insegnante che riceve questo Portfolio.

Per ciascun bambino dovrà essere redatto un Piano Personalizzato delle
Attività Educative. Chi scrive ne vorrebbe raccomandare la flessibilità e
rivedibilità estrema, sino alla possibilità del rovesciamento totale, ove
risulti opportuno, dato che parliamo di formazione di bambini (e non di
addestramento di cagnolini) e il mirare a risultati del processo educativo
non è quello della catena di montaggio, ma quello dell'incertezza
problematica degli esiti ed anche della possibilità dello scacco o del
fallimento, considerata la complessità dell'educazione e dell'istruzione. Su
questo entrano in gioco la mentalità e la professionalità docente.

C'è infine da auspicare che la cosa non si traduca in un uggioso e poco
utile adempimento burocratico e trovi uno spazio ben accettato nell'ambito
del servizio.

Attenzione alla famiglia o familismo?

Nel processo di valutazione si prevede vengano coinvolti anche i genitori, o
meglio, le famiglie. Di per sé la cosa potrebbe essere sensata, tanto più in
considerazione dell'età dei soggetti su cui verte la valutazione.

Ci possiamo riservare tuttavia una qualche perplessità, data l'insistenza
morattiana sulla famiglia, che ci sembra costituire l'ultima istanza
rispetto alle attività scolastiche. Per esempio, in questi tempi di
competitività e di investimento di molti genitori sul primeggiare dei propri
figli, andrebbero queste tendenze assunte dalla scuola stessa?

Potremmo, nella linea morattiana, giungere a siffatte pericolose
conclusioni, se pensassimo a dover rispondere ai genitori concepiti, come
qualcuno pensa, come clienti e committenti

Aspetti filosofico-religiosi

Sia le Indicazioni che le Raccomandazioni riprendono i campi d'esperienza
dei vigenti Orientamenti. Già in occasione del "varo" di questi ultimi ebbi
occasione di evidenziare alcuni voluti elementi ambivalenza di questa parte
del curricolo (orientata in senso non solo etico, ma anche implicitamente
religioso), particolarmente per quel che riguardava "il sé e l'altro" .
Anche se probabilmente non a tutti è risultato immediatamente evidente, nel
testo del '91 l'altro è l'amico o il vicino di casa, l'altro è il diverso,
ma l'altro (l'assolutamente e totalmente diverso) è più di ogni altro Dio,
il che coinvolge nel discorso l'educazione religiosa, e non solo quella alla
relazione interpersonale.

Ebbene, mi sembra che ancor più fortemente rimandino ad una concezione
filosofico-religiosa enunciata e non argomentata, caratterizzata tra l'altro
significativamente dalla frequente utilizzazione dell'espressione persona -
espressione mai definita e quindi ambivalente - da parte della dottoressa
Moratti (un tempo usando l'espressione persona il mondo cattolico in modo
chiaro rendeva esplicito il preciso riferimento al Creatore), le
enunciazioni relative al campo d'esperienza "il sé e l'altro"
.
Delineando le competenze connesse a questo campo, il testo in esame così
recita:"Esplicitare interrogativi che nascono sul senso della propria
esistenza della nascita e della morte, delle origini della vita e del cosmo,
della malattia e del dolore, del ruolo dell'uomo nell'universo, dell'
esistenza di Dio a partire dalle diverse risposte elaborate e testimoniate
in famiglia e nelle comunità di appartenenza".

In relazione a ciò mi sembra di poter rilevare un'autentica precoce
problematizzazione di dati come la malattia, il dolore la morte, che non
possono trovare un senso condiviso se non al più attraverso la messa in
evidenza dei problemi, problemi che - ahimè - sono di difficile se non
impossibile soluzione da parte degli stessi adulti, a meno che non si
rifacciamo ad una concezione religiosa o filosofica determinata, in caso
contrario ci si può limitare unicamente a porre il problema. Ma è possibile
dai due anni e mezzo ai sei prospettare che la domanda sulla malattia, il
dolore, l'esistenza di Dio si trovino senza una possibile risposta, che non
sia quella della tradizione familiare di appartenza? Giova a questa età
creare delle differenziazioni che nel rapporto tra diversità ed uguaglianza
evidenziano più la differenza (che i bambini colgono concretamente molto più
facilmente di quanto possano conquistare faticosamente l'idea dell'
eguaglianza nella diversità).

Troviamo ad un tale quesito la solita risposta familistica dell'
arricchimento attraverso il confronto delle diversità senza mettere in gioco
la più complessa relazione tra diversità ed uguaglianza.

Così, per esempio, si insiste ripetutamente sull'identità di genere, ma in
una maniera che ci sembra conservatrice e rituale nella ripetitività del
testo, che pare far riferimento ad una identità di genere che non delinea
nuovi possibili ruoli anche interscambiabili tra i sessi maschile e
femminile, che non vede il superamento tra i piccoli allievi di ruoli
stereotipicamente maschili e femminili, quale spesso si verifica nella
differenziazione dei giocattoli.

Ma soprattutto si rimanda ad un - a mio avviso - precocissimo confronto in
tema etico-religioso, le cui risposte non vengono dai bambini, ma
fondamentalmente dalla famiglia, o dalla parrocchia.

Sempre parlando del "sé e dell'altro", si trova una distinzione concettuale
filosofico-psicologica non molto fondata razionalmente, che distingue il sé
(definito come la parte più stabile e profonda dell'identità personale che
soggiace a tutti i cambiamenti dell'io, li trascende e li unifica, rimane
sostanzialmente sempre chi è, l'essere sé).

Il nostro sé resta uguale proprio mentre il nostro io comincia a cambiare e
a modificarsi. Sembra quasi ovvio obiettare che non esiste un soggetto che
contiene le caratteristiche stabilmente innate (il sé) a cui si appiccicano
le caratteristiche storiche, sociali e culturali (appartenenti all'io): la
dimensione "esterna" si congloba nell'homo sapiens unitariamente con i dati
biologici e con l'esperienza "interna" di ciascuno, in un tutto
inestricabile: non c'e nell'uomo natura senza cuiltura, né cultura senza
natura.

E' chiaro che l'enunciazione di un sé stabile (l'anima? la persona?)
distinto da un io storico-sociale mutevole non può non sfociare nel bambino
e nella bambina in una soluzione teologica.
.
Inoltre la scuola dell'infanzia si configura un po' adultisticamente come
luogo delle grandi domande di portata esistenziale, metafisica o religiosa,
destinate a scavare nel profondo dell'animo dei nostri bimbi: il senso della
propria esistenza, della nascita e della morte; le origini della vita e del
cosmo; il significato di fatti ed eventi che seminano morte e distruzione,
il perché del dolore innocente o dell'iniquità incolpevole; le ragioni delle
diverse spiegazioni degli adulti dinanzi agli stessi problemi e alle stesse
situazioni; il bene e il male; esiste Dio, e come è se esiste.

Vorrei poter io, adulto, vaccinato e laureato, avendo su certi temi
riflettuto una vita, dare soddisfazione a queste domande, che nella concreta
personale esperienza di riflessione si sono sempre più rivelate
problematiche quando non insensate ed irresolubili. Qui va notato, seppure
un po' adultisticamente, un (primo ed unico) riferimento al senso critico.

Ma qui il problema è per la Moratti - o per i suoi estensori - l'
individuazione di un "pacchetto" di valori universalmente condivisi, anche
se situato in un contesto storico che non esclude le differenze.
La tematica è trattata con una certa superficialità. Da un punto di vista
sociologico, antropologico e pedagogico è assai dubbio che esistano valori
universalmente condivisi. Valori condivisi possono esistere all'interno di
una comunità. Soprattutto parlando di scuola dell'infanzia, non mi sembra si
possa parlare di valori condivisi teoricamente da bambini e bambine, quasi
si trattasse di inculcare una teoria etica, ma più correttamente di una
condivisione che nasce e si sviluppa all'interno delle relazioni
interpersonali, attraverso meccanismi psicologici complessi, e comunque non
si tratta di dichiarare valori, ma di viverli.
Recentemente una candidata a Miss Italia ha dichiarato. "Bisogna credere nei
valori!". A me sembra che non abbia capito niente! Qui l'affermazione di
valori (ma quali? Ci sono dei valori, non i valori. Essi mutano nello
spazio, nel tempo, nelle diverse società, nelle diverse famiglie, ecc.)
diventa una atto di conformismo. Saprebbe la miss dire perché "bisogna"?

La differenziazione didattica

La diversità dei soggetti che apprendono richiedono percorsi personalizzati,
anche allo scopo di definire l'età di accesso alla scuola primaria, Qui, se
da un lato sappiamo della precocità di tanti bambini, resistiamo in qualche
modo perplessi dinanzi alla loro classificazione per così dire in serie A
od in serie B ed al relativo abbreviamento del corso di studi per alcuni .

La cosa sarebbe accettabile nella programmazione e nella gestione di un'
azione integrativa precoce specificamente approntata per entrare in un
processo di apprendimento legato ad alcune ben delineate difficoltà
recuperabili.

Non è mia intenzione in questa sede effettuare una lettura analitica del
documento, ma un'utima considerazione vorrei presentarla. Il testo
morattiano propone la possibiltà di istituire una sezione per i divezzi,
costituita da 8/10 bimbi. La cosa è sensata. Ma ha senso proporre qualcosa
del genere in un momento di tagli selvaggi per le nostre scuole?


.
*Paolo Citran, Cidi della Carnia
L'articolo è in corso di pubblicazione sul n. 6 (settembre 2002) del
giornale "Scuolinfanzia/Cidi


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