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Istruzione d’eccellenza la gara diventa globale

Mentre alcuni Paesi alzano muri e scelgono il protezionismo, nei sistemi istituzionali del sapere cresce la libera concorrenza

20/03/2017
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la Repubblica

Federico Rampini

Da Brexit a Donald Trump, tutti gli shock politici degli ultimi dodici mesi hanno un impatto potenzialmente enorme sui sistemi universitari. Cominciando dagli Stati Uniti. Va ricordato che l’America può permettersi di praticare tariffe esorbitanti anche in virtù di un suo privilegio imperiale, una sorta di “signoraggio” sul mercato dei cervelli. Ormai un’università medio-alta – non più solo i nomi altisonanti dell’Ivy League o le big della West Coast come University of California e Stanford – costa 50mila dollari l’anno, sicché una laurea rappresenta un investimento da un quarto di milione (ancor più se si tratta di formare un avvocato o un medico). Sono costi irraggiungibili per una parte della middle class americana, i cui figli si caricano di debiti che faticheranno a restituire per i prossimi decenni della loro vita. A questo si aggiunge una deriva classista che parte dalle elementari, medie, licei, anch’esse divise tra scuole di serie A, B, C, con relative fasce di prezzo. È un sistema che ha smesso di creare opportunità per tutti. Avrebbe anche esaurito la sua capacità di formare la futura classe dirigente, se non fosse che le grandi università americane possono conquistare clienti su un mercato globale: gareggia per entrarci la meglio gioventù cinese e indiana, coreana e russa, italiana e francese. Questa situazione obiettivamente “predatoria” dà una marcia in più all’America, e al tempo stesso le consente di nascondere le gravi storture del suo sistema formativo.

In questo contesto però viene a inserirsi l’effetto Trump. La sua retorica anti-stranieri diffonde un messaggio di allarme nel mondo intero, lasciando affiorare la possibilità che gli stranieri non siano più così bene accolti come in passato. Per ora, sia chiaro, Trump non ce l’ha con gli studenti italiani di Harvard o Stanford, e neppure coi cinesi. Qualche paura però l’ha già fatta venire agli studenti che arrivano dal mondo islamico. Il grosso del suo arsenale offensivo si è poi spostato verso l’immigrazione povera, quella prevalentemente ispanica e spesso sprovvista di regolari visti o permessi di residenza. Sta di fatto però che nei campus universitari serpeggia qualche dubbio, l’atmosfera è inquieta.

Questo apre degli spazi alle università di eccellenza di altre parti del mondo: soprattutto se hanno già imposto la forza del proprio “marchio” a livello internazionale, per esempio conquistando un piazzamento in classifiche riconosciute come quelle del Financial Times. Università europee o asiatiche di chiara fama, oggi conquistano visibilità e appeal maggiori, verso fasce di studenti che possono sentirsi meno graditi negli Stati Uniti. Le prime candidate ad approfittarne, almeno in teoria, sono le università inglesi che già ultimamente avevano goduto di una piccola contro-fuga dei cervelli (l’ho raccontato su queste colonne, aumentano le famiglie americane che mandano i figli a studiare nel Regno Unito dove le rette sono più basse). Però Londra ha altri problemi con Brexit, che crea qualche incertezza per esempio sul futuro trattamento economico riservato agli studenti dell’Unione europea. Sono tutte dinamiche nuove e relativamente recenti ma indicano una competizione in sommovimento. Le università Usa non stanno a guardare del resto: aumentano i loro investimenti nei campus decentrati (o delocalizzati), dall’Italia al Golfo Persico, dalla Francia alla Cina. E anche questa però va vista come un’opportunità. Non solo per gli studenti di tutto il mondo che vedono allargarsi il ventaglio delle scelte, ma anche per il sistema universitario italiano che deve usare la presenza di un “concorrente in casa propria” come uno stimolo e un’opportunità per studiare le strategie dei rivali stranieri.


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