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Il test per il Tfa, la carriera di insegnante appesa ad una crocetta

Esplora il significato del termine: La prova di ammissione tra errori di grammatica, quiz e scena da filmLa prova di ammissione tra errori di grammatica, quiz e scena da film

23/07/2014
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Corriere della sera

Rachele Grandinetti

Se dovessi rappresentare la realtà con un simbolo sceglierei sicuramente la «x», quell’incognita che tra banchi di scuola ci ha fatto sudare e temere i compiti in classe. Tutti in grembiule e in bilico sulle assi, per scoprire le caratteristiche di variabili non tanto ordinate. È una lettera, è un segno e le difficoltà si moltiplicano. Basta un «per» e le mani non bastano più a tenere il conto. È quella stessa crocetta che, nell’incertezza dell’esito di una partita, scriviamo sulla schedina; la stessa che ci divertiamo a tracciare su una a, una b o una c sui test di personalità in compagnia delle amiche sotto l’ombrellone. Ed è la stessa che, ormai, si è fatta strumento e misura di valutazione. Sì, davvero la vita è tutta un quiz e il futuro può dipendere da una x. Perché, in fondo, il domani è sempre un’incognita.

L’esame, gli smartphone e tanto chiasso

Ce li hanno proposti inizialmente agli esami di Stato per mettere alla (terza) prova la nostra cultura generale. Da studentessa mi sembrò quasi rassicurante, niente in confronto al foglio bianco da riempire il primo e il secondo giorno. Poi quelle caselline da compilare si sono fatte strada negli atenei come test d’ingresso all’università. Adesso le crocette sono le regine dei concorsi. Sono Rachele, una gocciolina del mare magnum che, in questi giorni, ha affrontato il test preliminare per il Tfa, il Tirocinio Formativo Attivo, un corso di formazione e abilitazione all’insegnamento nelle scuole di secondo grado. In base al titolo di studio, ciascuno può accedere ad una o più classi di concorso. Io, laureata in lettere, ho «gareggiato» per la 043 (italiano, storia e geografia) e la 050 (materie letterarie negli istituti di secondo grado). Non avevo mai partecipato ad un concorso pubblico. I miei genitori, mia madre dirigente scolastico e mio padre insegnante di liceo, sono gli eroi dei concorsi a cattedra. Mi avevano raccontato di aule larghe e silenzi lunghi, banchi lontani e occhi vigili vicini. Niente di tutto ciò. L’aspirante tirocinante 2.0 vive un’atmosfera diversa: chiasso, disordine e spazio insufficiente per collocarci (eppure le iscrizioni e la tassa di 50 euro - perché è col quiz che si fanno i milioni - penso avessero parlato abbastanza chiaro circa l’afflusso) e scene da film. Infatti, al momento della comunicazione: «Abbiamo precisi ordini da parte del Ministero: la prova sarà annullata a chiunque venga sorpreso con un cellulare», un silenzio improvviso invade la sala e oltre cento persone che, contemporaneamente, si alzano ricordando di aver dimenticato lo smartphone in tasca.

Le domande trabocchetto e gli errori di grammatica

C’è una cosa che mi ha lasciata assai perplessa. Nonostante la preparazione cucita addosso con anni di studio, per alcune domande di questa famosa «cultura generale» che si richiede al futuro insegnante, era davvero inutile scavare nella memoria andando alla ricerca di cose mai incontrate nel mezzo del cammin di nostra vita e tra le pagine dei libri. Lacune mie, indubbiamente. Ma mi fa tristemente sorridere pensare che, per valutare il mio potenziale di formatore, debba sapere quale, tra vestito, bivio, miope e indagine, sia la parola del «vocabolario fondamentale dell’italiano». Onestamente, prima del test per il Tfa, non sapevo neanche cosa fosse il «vocabolario fondamentale dell’italiano». Ma ci sta. Non ci sta, però, che su un esame preparato e sigillato dal Ministero della Pubblica Istruzione ci siano errori di grammatica. Forse ce ne siamo accorti in pochi. O forse, chi l’ha notato, ha storto il naso per un momento e poi si è riconcentrato a mettere «ics».

Il o lo »ollverein? Il ministero non lo sa

Il Ministero mi interroga sul vocabolario fondamentale dell’italiano e poi pone questa domanda: «Cosa rappresenta il Zollverein del 1843?». Una delle quattro opzioni era: «Un unione commerciale di stampo liberista fra la Prussia e gli altri stati tedeschi». Un’unione. Senza l’apostrofo. Per non parlare di quell’articolo davanti a Zollverein e della data sbagliata (lo Zollverein è del 1834). Mi sento un asino a cui il bue ha dato del cornuto. E non addolciamo i bocconi con lo zucchero degli errori di stampa. Non posso davvero credere che, nel preparare un esame per un concorso nazionale, a nessuno sia caduto un solo occhio su quelle parole. Ma non è questo che conta. Quello che conta è mettere «x», anche a caso, perché laddove non arrivano le competenze, interviene la fortuna. E se la dea bendata assiste la tua penna nera a sfera facendoti azzeccare le risposte giuste allora sì che sei pronto per fare l’insegnante. È puro nozionismo, non è cultura generale. Un tempo, chi non era in grado di leggere e scrivere apponeva una X come firma. Non trovo molte differenze. Testano la nostra capacità (e fortuna) di mettere x, invece di capire se siamo in grado di parlare e scrivere bene in italiano, di comprendere il significato superficiale e profondo di un testo scritto, di orientarci nella storia, di fornire pennellate di arte, di viaggiare nella geografia. Ma ognuno deve portare la sua croce. A noi, brancolanti nel buio della precarietà, tocca portare una crocetta sulle spalle. È piccola ma pesa, richiede grande forza. E non basta l’unione a fare la forza. Nemmeno con l’apostrofo.


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