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G7 Università, Fedeli rivendica gli investimenti fatti: «Ma non bastano»

La ministra dell’Istruzione: «Abbiamo invertito il trend ma restiamo con differenziali seri dagli altri Paesi europei». E infatti, mentre la «Buona Scuola» è costata tre miliardi, l’università negli ultimi due anni ha recuperato solo 300 milioni

30/06/2017
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Corriere della sera

«Fare un G7 Università in Italia ha il significato di valorizzare quello che qui viene fatto e che è stato fatto nei due anni precedenti, di puntare come Paese sul valore dell’università per l’insieme del sistema Italia». Così ha dichiarato Valeria Fedeli a margine della cerimonia inaugurale del G7 Università oggi a Udine. La ministra dell’Istruzione ha rivendicato l’inversione di tendenza partita nel 2014 quando - ha detto - «si è tornati a investire nel sistema istruzione e ricerca».

Tanto per la scuola, poco per l’università

In realtà, a fronte dell’investimento economico fatto per la cosiddetta Buona Scuola con esiti a dir poco dubbi - tre miliardi l’anno per la stabilizzazione di quasi centomila docenti non sono bastati a eliminare la piaga del precariato e a debellare la cosiddetta supplentite, come pure aveva promesso il governo Renzi -, il fondo di finanziamento universitario è ben lungi dall’essere tornato ai livelli di partenza del 2009, prima della cura da cavallo imposta dal ministro Giulio Tremonti. Un taglio da 800 milioni che si è tradotto in una perdita secca di quasi diecimila ricercatori. Il tutto mentre gli altri Paesi europei invece investivano. Vero è che negli ultimi due anni l’emorragia si è fermata, ma i 7 miliardi annui a cui è stato riportato il Ffo sono lontani anni luce dagli investimenti fatti dai nostri vicini di casa, come ha riconosciuto la stessa Fedeli. «Restiamo con differenziali molto seri rispetto ad altri Paesi europei, ma abbiamo invertito il trend e dovremo continuare - ha detto la ministra - . Continuo a essere convinta che noi dobbiamo porre questo come priorità anche in Europa, perché gli investimenti in formazione e istruzione e ricerca devono essere fuori dal patto di stabilità».

Guerra fra poveri

Con una torta così esigua da spartire, anche il nuovo sistema di calcolo e ripartizione dei fondi su base premiale ha finito per scatenare una guerra fra poveri dove i danni - soprattutto a carico degli atenei del Sud - sono stati ben maggiori dei benefici per gli atenei più meritevoli (le piccole scuole d’eccellenza del Centro, le università di alto rango del Nord). Il tutto, per di più, sulla base dei contestatissimi risultati della valutazione della qualità della ricerca eseguita dall’Anvur, l’agenzia governativa che si occupa della valutazione del sistema universitario e della ricerca. Nell’ultima classifica stilata quest’anno non si contano i piazzamenti a dir poco sorprendenti: solo per fare un esempio, l’università privata Kore di Enna risulta prima in Fisica davanti alla Normale di Pisa.

Europa 2020: per l’Italia un obiettivo irraggiungibile

E comunque, in rapporto al Pil, noi continuiamo a spendere per l’università la metà dei tedeschi e dei francesi. Non a caso l’Italia - come ha confermato l’ultimo rapporto Eurostat di fine aprile scorso - è maglia nera per numero di giovani laureati (30-34enni): 26,2 per cento contro una media europea che sfiora il 40 per cento. Peggio di noi fa soltanto la Romania (25,6 per cento) che però partiva nel 2002 da una percentuale addirittura inferiore al 10 per cento. «Se vogliamo davvero realizzare quella che era l’Agenda 2020 dell’Europa (che prevede una soglia minima di laureati pari al 40 per cento, ndr), o come preferisco, l’Agenda 2030 dell’Onu - ha riconosciuto Fedeli - , bisogna investire per costruire davvero, e nei tempi più rapidi possibili, una società e un’economia della conoscenza . Questa deve essere la consapevolezza per chi vuol parlare di crescita effettiva e duratura di un Paese. Il governo italiano si è già mosso, Padoan queste cose le dice da tempo, il segnale di inversione di tendenza con investimenti economici noi abbiamo iniziato a farlo». Ma, come cantavano i soldati inglesi durante la Prima guerra mondiale, con questo ritmo di crescita «It’s a long way to Tipperary».


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