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Faccia a faccia sulla sperimentazione scolastica-2

Faccia a faccia sulla sperimentazione scolastica Intervista a Carlo Testi Direttore di Scuola-Città Pestalozzi, istituto sperimentale statale e Centro risorse per la formazione dei docenti, dal 1...

26/04/2002
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Faccia a faccia sulla sperimentazione scolastica
Intervista a Carlo Testi

Direttore di Scuola-Città Pestalozzi, istituto sperimentale statale e Centro risorse per la formazione dei docenti, dal 1994. Da anni opera nel campo della formazione insegnanti. I campi in cui è più impegnato sono: lo sviluppo della progettualità nella scuola, i curricoli della scuola di base, in particolare, dell'area linguistica.

Gli istituti scolastici godono di una sempre maggiore autonomia. Che senso può avere al giorno d'oggi proporsi come scuola sperimentale?

L'autonomia dà a tutte le scuole libertà di ricerca, sperimentazione e sviluppo e autonomia organizzativa. Ritengo che, in quanto scuola sperimentale che gode dalla sua nascita di una notevole autonomia, possiamo dare un supporto ad altre scuole sulla base dell'esperienza concreta e delle riflessioni sviluppate fino ad oggi. Dal 1997, proprio in relazione ai cambiamenti in corso, Scuola-Città Pestalozzi si è strutturata anche come Centro risorse per la formazione dei docenti.

La riforma Moratti introduce cambiamenti nei confronti delle realtà scolastiche come la vostra?

Allo stato attuale la riforma Moratti non introduce nessun cambiamento diretto all'interno di Scuola-Città. Blocca in parte le possibilità di interazione con altre scuole in quanto le prospettive sono tutte da definire in concreto. Per quanto riguarda una valutazione sull'impianto generale della riforma, se proprio la si vuole chiamare così, emerge con sufficiente chiarezza l'anacronismo del mantenimento della divisione totale fra scuola elementare e scuola media quando ormai migliaia di istituti comprensivi e l'esperienza più che cinquantennale di Scuola-Città Pestalozzi dimostrano che non solo è possibile, ma anche opportuno, costruire percorsi unitari in continuità dall'infanzia alla pre-adolescenza. In questo modo si può avere il tempo per fare acquisire con sicurezza, attraverso curricoli adeguati al contesto proprio di ogni istituzione scolastica, gli strumenti di base necessari per qualsiasi tipo di ulteriore apprendimento. Si possono, inoltre, affrontare meglio i fenomeni di dispersione scolastica evidente o sommersa tuttora notevoli sia nel passaggio fra le elementari e le medie, sia, successivamente, alla fine della terza media.
I tempi lunghi necessari per una formazione comune a tutti sconsigliano la divisione precoce fra chi impara solo dai libri e chi impara solo le tecniche per il lavoro. In qualsiasi contesto di apprendimento mi pare importante ricercare l'integrazione fra conoscenze e interventi sulla realtà.

Il modello di "scuola azienda" può far presa in quanto si presenta, almeno agli occhi di una fascia abbastanza ampia della popolazione, come un modo di creare dinamismo ed efficienza in scuole spesso esempio di staticità, che è il versante negativo dalla stabilità (particolarmente necessaria nei contesti educativi), e di ripetitività formale e burocratica. Le scuole più tradizionali sono già di fatto un esempio non esplicitato di scuola azienda in quanto si limitano semplicemente a registrare l'esistente, a razionalizzarlo e ad espellere tutto ciò che non corrisponde ad un modello pre-determinato dalla tradizione.
Ritengo che una scuola davvero dinamica sia in realtà quella in cui si ricerca continuamente la difficile coerenza fra i valori stabiliti dalla Costituzione, i curricoli, i comportamenti quotidiani, e in cui l'organizzazione si evolve gradualmente in rapporto all'evolversi delle esigenze e delle prospettive di sviluppo che ogni scuola si può dare.

Cosa pensa ci sia da cambiare con più urgenza nelle scuole tradizionali?

Occorre che si cominci seriamente a porsi domande sul cosa viene insegnato, sul come e sul perché, attivando un processo di riflessione collettiva che, se supportata dall'esterno e dall'interno, può davvero portare gradualmente ad innovazioni non superficiali e durature nel modo di fare scuola.

La nuova riforma propone cambiamenti che vanno in questo senso?

Allo stato attuale mi sembra che la proposta di riforma Moratti non contribuisca ad indirizzare le scuole nel senso che ho appena detto.

Pensate di avere qualcosa da insegnare ai colleghi di altre scuole?

In questo caso insegnare non è forse il termine più adatto perché richiama il professore in cattedra. Certamente pensiamo di avere qualcosa da condividere con colleghi di altre scuole a partire dai loro bisogni di ricerca educativa. L'approccio di Scuola-Città è fortemente laboratoriale e problematizzante, si tratta quindi di ricercare insieme a partire dal confrontare esperienze diverse come quantità e qualità.

Che il sistema scolastico italiano abbia bisogno di cambiamenti è condiviso da tutti, ma è estremamente difficile immaginare "la scuola che vorremmo". Pensate di avere compreso i bisogni e le esigenze di studenti e famiglie?

Per quanto riguarda gli studenti, l'esperienza ci dice che essi amano costruire, elaborare, insieme o individualmente, prodotti che hanno per loro un significato, sempre fondamentalmente affettivo, anche quando il processo attivato è squisitamente cognitivo. La scuola può essere il luogo in cui si cerca costantemente l'incontro fra ciò che vogliamo trasmettere come società e lo sviluppo di capacità di produzione "culturale" (anche i prodotti materiali lo sono) degli studenti. Tradotto in altri termini, quasi sotto forma di slogan, si potrebbe dire: meno riproduzione più produzione.

Molto più difficile è capire cosa vogliono le famiglie. Di solito manifestano una meraviglia positiva quando vedono che il loro figlio va a scuola volentieri e mantiene viva la sua curiosità nei confronti di quello che viene proposto. Il vecchio modello di insegnamento e gli stessi suoi contenuti sono palesemente in crisi anche agli occhi della maggioranza dei genitori. Ma credo che la scuola nel suo complesso non abbia elaborato finora altri modelli sufficientemente chiari e diffusi e che, anche per questo, i genitori si trovino spesso a richiedere, in modo più o meno esplicito e contraddittorio, certezze basate su modelli culturali di tipo trasmissivo ed enciclopedico.

Uno dei problemi su cui molti concordano è la distanza incolmabile tra ciò che viene insegnato a scuola e ciò che accade nella vita "reale" dei ragazzi. Quale può essere una via per ridurre questo divario?

Se si considera la scuola un luogo che ha sì finalità specifiche, ma che è anche luogo di vita dei soggetti che la frequentano, si possono trovare i modi per far interagire le culture di cui gli studenti sono portatori con le proposte di apprendimento della scuola.
I docenti, da un lato, dovrebbero probabilmente imparare a scoprire cosa delle culture giovanili può essere utilizzato per sviluppare apprendimenti disciplinari sempre più complessi ed astratti, dall'altro dovrebbero porre domande significative, abituare gli studenti a farlo, e ricercare insieme come dare risposte, seppure parziali, per mezzo di specifici strumenti di conoscenza, concettuali, linguistici. Ogni domanda mette in gioco le proprie conoscenze che interagiscono con quelle altrui e crea la necessità di acquisirne di nuove se il contesto, in questo caso la scuola, è organizzato per farlo. Chiaramente il processo che si attiva non è meccanico, ogni individuo risponde in modi e tempi diversi, per questo occorre una scuola che abbia tempi distesi e che limiti al massimo le rigidità nella presentazione di singoli contenuti di apprendimento


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