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DS on line scuola e formazione: Le prospettive dell’autonomia scolastica tra Stato e società civile.

Bollettino n.68 interamente dedicato ad un saggio sull’autonomia scolastica di Franco De Anna. Lo scritto sarà pubblicato sul numero di maggio della rivista RAS, rassegna dell’autonomia scolastica)

02/05/2006
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di Franco De Anna

L’articolo anticipa e sintetizza parte delle riflessioni, analisi e proposte contenute nel volume dell’autore Autonomia scolastica, società civile e sviluppo della democrazia.di prossima pubblicazione Uno spunto di riflessione: la questione delle risorse per la scuola.

L’analisi della consistenza e dei flussi di risorse finanziarie pubbliche che fluiscono nel sistema scolastico conduce a cinque constatazioni, per altro largamente condivise nel dibattito in corso nelle scuole.

1.Le risorse pubbliche sono declinanti, in un trend che quest’anno ha raggiunto un punto di ribasso particolarmente allarmante (sia pure corretto ultimamente con misure “tampone”)

2.Il flusso di risorse è caratterizzato da particolari condizioni di inefficienza dovute a molte ragioni (lo “stile” di finanziamento non è budgetario non ostante fosse previsto dalla norma, ma mantiene diversi vincoli di destinazione; il ciclo “economico” della scuola è sfalsato temporalmente rispetto all’anno finanziario; le regole di finanziamento e di spesa imbrigliano l’efficienza della stessa).
Tutte cooperano, tra ritardi del flusso finanziario nazionale e avanzi delle scuole, a dimezzare (quasi) le poste “reali” rispetto a quelle previste in corso di esercizio.
Si configura cioè una “spesa a basso controllo” di efficienza e efficacia e a basso tasso di trasparenza e controllo pubblico.

3.Gli indici di bilancio delle scuole presentano una estrema variabilità, pur a parità di criteri di finanziamento pubblico e di norme di spesa: gli scostamenti fanno riferimento sia a livelli diversi di efficienza di spesa, sia a scelte di politica di investimento: modelli “intensivi” (pochi progetti ad alto costo unitario) si affiancano a modelli estensivi (ventaglio progettuale molto ampio a bassa intensità di spesa unitaria) che traducono, sul piano economico interpretazioni diversi dell’autonomia scolastica e interazioni di diverso segno con il territorio e con i servizi da rendere ai cittadini. (si vedano i diversi contributi comparsi sulla rivista nei numeri precedenti)

4.Sempre più spesso e in modo assai consistente le scuole fanno ricorso alla provvista di finanziamenti non ministeriali: pubblici nel caso di risorse degli Enti Locali o della UE, privati in molti casi (dai contributi delle famiglie a quelli di altri soggetti).
Tale provvista è variamente effettuata sia per ragioni di scelta esplicita (la salvaguardia “ideale/ideologica del carattere pubblico) sia per le caratteristiche del contesto operativo della scuola stessa e del territorio di riferimento (differenziali socio economici e di ordine di scuola).
Comunque, anche se non ancora organizzata in termini di vera e propria attività fund raising, tale preoccupazione appare in modo sempre più consistente e generalizzato come una componente del lavoro del Dirigente Scolastico.

5.La situazione così sintetizzata afferisce a condizioni specifiche del nostro Paese (consistenza e struttura della spesa pubblica, rapporto tra spesa e deficit, rapporto tra deficit e debito pubblico, efficacia ed efficienza degli apparati amministrativi dello Stato).
Ma si deve ricordare, per dimensionare opportunamente il problema, che il declinare della spesa per il sistema scolastico è un trend generalizzato per tutti i paesi europei (e non solo) anche a partire da condizioni di economia pubblica più favorevoli.
Con la necessaria distinzione tra “risorse per la formazione” (che in qualche caso presentano andamenti levitanti) e “spese per la scuola” in generale calanti. Una distinzione che aprirebbe interrogativi radicali su possibili prospettive di transizione dalla “forma storica” assunta dal “diritto all’istruzione” (i grandi apparati di istruzione pubblica storicamente sviluppatisi in parallelo allo sviluppo degli Stati nazionali) ad altre forme di esercizio di tale diritto nell’involucro istituzionale, economico, sociale della “postmodernità”. (Una riflessione cui si accenna ma che ha ovviamente altre sedi e opportunità di sviluppo).
Dunque a fronte del declinare delle risorse pubbliche per la nostra scuola si può reagire semplicemente reclamandone di ulteriori (ed è necessario, ovviamente): ma deve essere anche chiaro che, fuori dalla contingenza politica, il problema si pone in termini prospettici e strategici in modo assai meno semplice. Ed è quello che si tenterà di esaminare in questo contributo.

La questione può provvisoriamente essere così sintetizzata: le scuole autonome per garantirsi livelli accettabili di funzionamento e di sviluppo fanno ricorso sempre più spesso alla “disponibilità a spendere” di soggetti privati. Si tratta di una tendenza contingente e “riparatrice” rispetto alle risorse pubbliche limitate o ha anche un rilievo prospettico? Nel prossimo futuro è realisticamente molto difficile delineare scenari di espansione della spesa pubblica; dobbiamo perciò convalidare l’ipotesi che una politica di sviluppo sia possibile solo in condizioni di investimento pubblico crescente, e dunque sostanzialmente ridimensionare prospettive e programmi, oppure la “disponibilità a spendere” per investire nella scuola e nella formazione da parte di soggetti diversi dallo Stato (non necessariamente “privati” come si vedrà di seguito) può essere utilizzata per politiche di sviluppo?

E se si, a quali condizioni di salvaguardia della funzione pubblica dell’istruzione? Attraverso quali canali di “raccolta” delle risorse, che non siano semplicemente la disponibilità “privata” dei singoli? E con quali forme di “rendicontazione sociale” che riportino alla dimensione pubblica anche la suddetta “disponibilità a spendere” per via diversa da quella classica della fiscalità generale, supportandola e motivandola nella “scelta” specifica di impegno?

Come si vede un intreccio di interrogativi che a partire da una condizione empirica attuale, muovono la riflessione a questioni di carattere generale che investono da un lato la configurazione di quei particolari “soggetti pubblici” che sono le scuole autonome e i loro rapporti con la “società civile” (e con il mercato). Dall’altro ripropongono una riflessione radicale sui diritti di cittadinanza, sul rapporto pubblico-privato, sulle strutture dalle società civile e sui rapporti tra esse e la dimensione pubblica della politica e delle istituzioni.

Ma sono interrogativi che accompagnano la fine del secolo scorso e il nuovo millennio e la crisi dei modelli sociali, politici ed economici che attraversiamo.

Primo step di riflessione: interpretazioni dell’autonomia scolastica

Dopo poco più di un quinquennio di vita (tra sperimentazione e messa a regime delle regole di funzionamento) è maturo il tempo di rimettere a punto la riflessione sull’autonomia delle istituzioni scolastiche, delle esperienze fatte e delle modificazioni istituzionali/costituzionali che nel frattempo sono intercorse.

C’è infatti il rischio che questi “strani” soggetti pubblici ai quali si è dato vita, in sostanza nel più significativo intervento riformatore per la scuola messo a segno negli ultimi quaranta anni, rimangano “senza capo né coda”.

Senza “capo” perché considerarli semplicemente come Enti Pubblici strumentali/funzionali di un ente superiore (il MIUR) non da conto del complesso delle interrelazioni con la società civile e con la fruizione del diritto all’istruzione come “diritto di cittadinanza”.

Senza “coda” perché rimangono largamente indefiniti e indeterminati i rapporti e le relazioni tra questa “autonomia” e il complesso sistema di ristrutturazione istituzionale del sistema delle “autonomie”; ma ancora più profondamente con il paradigma della “sussidiarietà” che è stato introdotto dalla norma stessa (per tutti gli esempi si pensi alla legge 59/97) che impronta di sé i rapporti tra cittadini, loro bisogni e diritti sociali (e loro obbligazioni) e servizi pubblici, pubblica amministrazione, welfare system (che è qualche cosa di diverso dal welfare state).

Due modelli interpretativi si confrontano.

1.Il più semplice, classico e tradizionale interpreta l’autonomia delle istituzioni scolastiche entro il paradigma che Sabino Cassese ha indicato con il termine “entismo”.
Nello sviluppo storico dello “stato dei servizi” accanto alla tradizionale funzione “autoritativa” della Pubblica Amministrazione, in tutte le circostanze nelle quali quest’ultima doveva affrontare il problema di erogazione di prestazioni e servizi che non rientravano nelle competenze “autoritative”, si dava vita a Enti pubblici “dedicati, con assetti e profili organizzativi diversi (enti funzionali, strumentali, ausiliari..) dotandoli di gradi diversi di autonomia e di forme diverse di vigilanza pubblica.
Secondo tale interpretazione l’autonomia delle istituzioni scolastiche rientra in tale paradigma tradizionale, semmai segnando una controtendenza: dalla fine degli anni ’70 e in particolare con le “bassanini” il mondo degli enti pubblici ha progressivamente conosciuto uno sfoltimento drastico.
Con l’autonomia delle istituzioni scolastiche sono stati creati in un colpo solo 10.000 nuovi Enti Pubblici.
L’elemento specifico è costituito dal fatto che viene così dato involucro organizzativo, sotto specie di “ente pubblico strumentale di…” ad un principio di fondo di rango costituzionale come quello della “autonomia della elaborazione della cultura e della scienza”. E’ evidente che “ autonomia della scuola” rappresentativa di quest’ultima, e “autonomia delle istituzioni scolastiche” come profilo organizzativo di un Ente strumentale, nonhanno il medesimo significato.
Il contenuto e l’adeguatezza materiale del contenitore sono in dialettica che, a certe condizioni, non può che rivelare tutte le tensioni irrisolte tra la dimensione valoriale del primo e la strumentalità organizzativa del secondo.
Questa interpretazione è coerente con un modello tradizionale di produzione dei servizi sociali ed alla persona che è fondato su un potere pubblico e istituzionale (lo Stato o i suoi “derivati”) che si costituisce in offerta pubblico/sociale e che si fa misura - e al tempo stesso misura - della domanda sociale.
Quanto tale modello sia attraversato da una crisi storica irreversibile è raccontato da molte analisi sulla crisi dei modelli di welfare che qui non possiamo riprendere.

2.Il secondo modello interpretativo tenta di raccordare l’autonomia delle scuole con la declinazione del paradigma della sussidiarietà che tenta di informare di se un complesso di interventi riformatori della Pubblica Amministrazione, del sistema degli Enti Locali, della territorializzazione del welfare con la costruzione di un welfare system.
In sostanza l’autonomia delle scuole rappresenterebbe la declinazione del principio di sussidiarietà in campo di diritto all’apprendimento dei cittadini.
La consapevolezza della crisi delle forme tradizionali di “offerta pubblica”, variamente espressa, dichiara comunque la necessità di una “inversione” di approccio che pone "l'autonomia della domanda sociale" come principio operativo capace di restituire non solo protagonismo ma anche economicità all’impresa “sociale”.
In questo senso la scuola come siamo abituati a considerarla (un “apparato istituzionale” che ha la delega per “produrre” l’istruzione e la formazione) appartiene a pieno titolo al modello costituito sul “primato dell’offerta”.
Da questo punto di vista si tratta cioè di un paradigma istituzionale che storicamente risponde a un “diritto della persona” e si sovrappone ad esso alla lunga identificandosi con esso.
Se decliniamo il diritto all’istruzione (accesso a un “sistema”) ed alla formazione come un diritto all’apprendimento di conoscenze, competenze, valori, significati, si opera un apparente “piccolo scarto” di significati, ma di grande potenzialità.
Sganciamo cioè l’affermazione di un diritto sociale dalla “forma determinata” della risposta storica che esso ha avuto nella sua dimensione di “istituzione che offre”, e lo riportiamo alla dimensione feconda della “domanda dei cittadini”.
Può apparire uno scarto tutto “teorico”; ma si pensi a quali conseguenze ha tale scarto nel rispondere operativamente a questioni “moderne”, quali la “formazione per tutta la vita”, oppure più concretamente alla esplorazione della differenza fondamentale che c’è tra “spendere per la scuola” e “investire in formazione”.
Entro tale apparentemente “teorico” scarto si alimenta una concezione (e una pratica) per le quali tendenzialmente la domanda sociale plasma e costruisce l'offerta, in un rapporto che considera la domanda sociale come un valore "orizzontale" perché promanante dalla soggettività considerata nella sua interezza (di persona o di corpo sociale).
E questo anche quando tale domanda si fa domanda specifica, alla quale si risponde con una offerta (e l'offerta è sempre specificata) di un bene o di un servizio (il prodotto). C’è infatti il cittadino, non il cittadino malato, o il cittadino da istruire, o il cittadino che ha bisogno di cure o di vivere in un ambiente compatibile.
In questa interpretazione la scuola (la singola scuola) si configura come “impresa sociale” che si raccorda direttamente con la società civile e con l’esercizio della cittadinanza.

Come ovvio tra i due modelli interpretativi sta la realtà. La scuola come “impresa sociale” svolge contemporaneamente una funzione essenziale per lo Stato: dunque rappresenta a tutti gli effetti una forma di mediazione tra Stato e cittadini, almeno per quanto attiene alle funzioni formative. Appartiene infatti allo Stato la definizione dei “livelli essenziali di prestazione” che rappresentano la piattaforma egualitaria del diritto di cittadinanza. Ed è la scuola autonoma che “produce” tale servizio essenziale, in autonomia di produzione e di organizzazione.

Ma in tale produzione l’impresa sociale si connette alla “domanda” (la concreta espressione specificata dei bisogni e dei diritti di apprendimento), e alla domanda rende conto, al pari di quanto rende conto all’Ente sovra ordinato che “commissiona” i livelli essenziali di prestazione”.

La dialettica dell’autonomia, appunto.

Ma essendo una “dialettica materiale” (si “producono” servizi e relazioni sociali) ha un inevitabile risvolto nella questione delle risorse materiali necessarie alla “produzione”.

La definizione dei livelli essenziali di prestazione è metodologicamente un passo obbligato in contesto di affermazioni di “federalismo” o comunque di titolarità plurima dei servizi di formazione tra Stato e sistema delle autonomie (… fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche.., si ricordi il dettato costituzionale riformato!).

Non ha ancora trovato formulazione adeguata: i livelli essenziali sono espressi come risultati terminali da raggiungere? Riguardano anche i processi? Investono anche le “regole produttive”? sono i “programmi di insegnamento” di tradizionale memoria?
Due cose sono però indubitabili: la prima è che ad essi deve corrispondere, in termini di finanziamento pubblico, almeno il “prezzo” dei servizi nei quali si realizzano tali prestazioni essenziali. La seconda è che comunque ciò non esaurisce né la natura, né l’operatività della “impresa sociale” in rapporto con la concreta risposta ai concreti bisogni/diritti all’apprendimento dei cittadini.

Dunque sono necessarie altre risorse: dal sistema delle autonomie territoriali? Ma allora occorre introdurre sia la questione della fiscalità locale, sia quella delle “produzioni” che corrisponderebbero alla “transazione” tra la Scuola autonoma e gli enti Locali di riferimento. O si pensa a erogazioni senza definizione di prestazioni?

Naturalmente data la difficoltà di rispondere a tali questioni, almeno a partire dalle concezioni e dai modelli tradizionali, si potrebbe sempre richiamare l’interpretazione dell’autonomia scolastica come decentramento funzionale del MIUR (dello Stato) e riportare il tutto nell’alveo tranquillizzante di un modello tradizionale di produzione di servizi pubblici.

Con i corollari inevitabili dell’adempimento disciplinato, dell’erogazione protetta dal primato dell’offerta, dalla prevalenza dell’ ordinamento sulla dialettica di cittadinanza (lo Stato sa cosa è bene per i cittadini…). Il tutto corretto dalla permanente e giustificata richiesta di maggiori risorse pubbliche di fonte “fiscalità generale”.

Mettere in discussione modelli interpretativi tradizionali può far venire mal di testa; ma la decapitazione non è una buona cura per la cefalea.

Credo che senza rispondere in termini innovativi e coraggiosi a tali domande non si possa realisticamente mantenere “ il primato del pubblico” cui personalmente tengo. Tale “primato” non è un a priori: è un risultato che si raggiunge facendo essere l’erogazione pubblica “superiore” a quanto disponibile sul mercato, anche mettendo nel conto i costi relativi inevitabili legati all’obiettivo egualitario della cittadinanza.

Secondo step di riflessione: cittadinanza sociale, stato e società civile.

Thomas Marshall ricostruisce il processo storico di sviluppo dei diritti e della cittadinanza in uno schema “progressivo”.

Con i diritti civili la società regola e vincola l’impatto della forza e della violenza sulle relazioni tra le persone. Con i diritti politici si assicura invece che il potere, la sua legittimazione ed il suo esercizio non siano limitati ad una èlite. Infine con i “diritti sociali” lo Stato neutralizza le ingiustizie dei processi di mercato, colma le ineguaglianze distributive che su di esso si mantengono o si generano.

La ricostruzione del grande sociologo della politica ha una grande presa “suggestiva”; lo cito perché mi pare che in sostanza cinquant’anni di sviluppo dello Stato Sociale, l’abbiano fatta introiettare come una sorta di “modello ideale”, di valore descrittivo ma anche “assiologico” su cosa sia la cittadinanza “pienamente realizzata”.

In realtà si tratta di una astrazione “indeterminata” che si adatta, come modello ideale, alla fase del keynesismo-fordismo, questa invece determinata storicamente.

Sarebbe sufficiente un minimo di ricostruzione per comprendere che il percorso progressivo e sommativo dai diritti civili a quelli sociali è tutt’altro che lineare: basti pensare che la questione dei diritti civili penetra profondamente entro la seconda metà del ‘900 (si pensi alla questione dell’integrazione razziale negli USA, o alla questione dei diritti delle donne o delle minoranze).

Si potrebbe anche drasticamente affermare che lungo gli oltre due secoli della modernità che iniziano con la solenne dichiarazione dei diritti dell’uomo, l’unico di essi che passa inalterato nelle tribolazioni di quella storia è il diritto di proprietà.

I diritti politici si sviluppano in modo altrettanto differenziato: dalle tre rivoluzioni dell’era modernache li proclamano come fondativi occorre attendere a lungo per la realizzazione del suffragio universale, del voto alle donne, fino in sostanza alla metà del ‘900 (il caso del suffragio femminile nella “democratica” Svizzera è cosa degli anni ’70).

I diritti sociali si sviluppano sulla base del modello fordista-keynesiano: la produzione di beni di massa da parte della grande industria moderna, la concezione che il benessere della società corrisponde a quello di milioni di salariati consumatori dei suddetti beni di massa, e che lo Stato interviene nell’economia in modo attivo con una politica della domanda (aggregata: consumi e investimenti) utilizzando accortamente la spesa pubblica e il deficit di bilancio.

Insomma l’integrazione dei “diritti sociali” realizza cittadinanza utilizzando la “spesa”. La cittadinanza sociale è “vincolata” al deficit.

In realtà a questo approccio di analisi “strutturale” si accompagna con la medesima importanza quello della storia delle “interpretazioni e delle idee”,. (Basterebbe pensare alla “tensione etica” che accompagna il programma di Lord Beveridge che fonda il moderno stato sociale)

Lo sviluppo della cittadinanza è ovviamente sempre accompagnato da istanze di interpretazione del rapporto Stato-cittadini, e del rapporto Stato-società.

Senza addentrarsi in ricostruzioni storiche che esulano da queste note, si può semplicemente affermare che le “forme”specifiche di integrazione della cittadinanza sono dunque non solo assai differenti nei diversi modelli sociali, ma corrispondono anche alla composizione di diverse variabili.

La matrice di seguito può essere utilizzata per ricostruire questi diversi modelli attraverso tipologie analitiche. In essa si ricostruisce una “griglia analitica” che consente di modellizzare le forme e le specificità di interazione tra Stato e società civile, nel processo di estensione della cittadinanza sociale (e dunque anche dei rapporti tra diritti civili, politici e sociali).

Tale intervento è “incrociato” con le “istanze” (culturali, ideali, politiche) che hanno accompagnato l’intervento strutturale. (indicate come “pedagogia emancipatrice” versus “pedagogia stabilizzatrice”

Nelle celle definite dalla matrice il lettore potrà collocare esemplificazioni di esperienze storiche e modi specifici di combinazione e integrazione dei diritti di cittadinanza.

Per esempio lo “Statalismo emancipatore” è caratteristico di tutta l’esperienza francese, segnata dalla cesura rivoluzionaria dell’’89.

Lo “statalismo stabilizzatore” è tipico dei primordio di “stato sociale” costruito nell’esperienza Bismarkiana.

Rapporto Stato/Società civile

Pedagogia emancipatrice

Pedagogia stabilizzatrice

Modello statalista

Statalismo emancipatore

Statalismo stabilizzatore

Modello societario

Societarismo emancipatore

Societarismo stabilizzatore

Il modello societario è tipico delle esperienze anglosassoni: nella versione emancipatrice appartiene alla tradizione “rivoluzionaria” americana (si rammentino le analisi di Tocqueville sulla “democrazia americana” e sulla importanza della autonomia della società civile). Più recenti sono i modelli di welfare delle esperienze scandinave. Interpretano storicamente ciò che oggi chiamiamo “sussidiarietà”.

Nella versione “stabilizzatrice” appartiene alla esperienza inglese (si pensi al programma ed llemivzioni “caritatevoli” del Beveridge da cui parte l’esperienza di vero e proprio “stato sociale” della seconda metà del ‘900).

Lascio all’analisi del lettore superare con maggior cura l’approssimazione di queste affermazioni necessariamente sintetiche.

Importa qui semplicemente rammentare che la concreta espressione della “cittadinanza sociale” di cui oggi interroghiamo la crisi si realizza storicamente nelle modalità specifiche di declinazione del modello strutturale keynesiano-fordista entro le tradizioni storiche delle diverse formazioni sociali.

In particolare nelle forme specifiche del rapporto tra Stato e Società civile delle diverse formazioni sociali.

Il “modello societario” è caratterizzato da una molecolare organizzazione della società civile (associazionismo, volontariato, ecc..) che “media” il rapporto tra cittadino e istituzioni, valorizzando le “formazioni intermedie”.

Il “modello statalista” tende a connettere direttamente cittadino e istituzioni, o attraverso la deprivazione esplicita delle “formazioni intermedie” (le esperienze di statalismo rivoluzionario) o, nella storia del ‘900, riconoscendole in sostanza solo nel momento in cui siano “finalizzate” alla mediazione politica (i grandi partiti di massa, le organizzazioni sindacali).

L’esperienza italiana, letta attraverso quella matrice consente una analisi determinata della quale si segnano solamente i punti salienti

1.Le forme intermedie della autorganizzazione della società civile per rispondere a bisogni e diritti sociali sono storicamente identificabili nelle opere di ispirazione religiosa (le attività sociali della Chiesa) e nelle iniziative di “mutualità” e di cooperazione sviluppate dal Movimento Operaio (con diverse ispirazioni, “bianche” o “rosse”).
Le prime subirono la pressione dello Stato nella prima fase post risorgimentale (emblematica la legge Crispi del 1890 che sottometteva al controllo pubblico le Opere Pie che fornivano servizi assistenziali, sanitari, di formazione professionale) e poi trovarono una sistemazione di “compromesso operativo” con il fascismo (la costituzione delle IPAB) e il Concordato.
Si noti che la Legge Crispi rimase in sostanza immutata per un secolo, fino al 1988, con una sentenza della Corte Costituzionale che ne dichiarava la incostituzionalità dell’art. 1 che proibiva la prestazione di servizi assistenziali da parte dei privati.
Le iniziative di mutualità sorte con il Movimento Operaio furono da un lato riassorbite (drammaticamente) dalle iniziative del fascismo di costruzione di primi segmenti di “stato sociale” (le forme di “assicurazione sociale”, ma anche le iniziative dopolavoristiche, associative alle quali il regime assegnava la funzione fondamentale di “nazionalizzazione delle masse”), e poi in sostanza con la costruzione dello Stato Sociale che oggi conosciamo.
Lo stesso movimento cooperativo originario, subentrando lo sviluppo del welfare state, continuò significativamente a svilupparsi, ma mutando anche radicalmente (è storia di oggi) ruolo e funzioni.

2.Le forme di organizzazione intermedia della società civile nell’esperienza italiana sono significativamente rappresentate dalla prevalente (esclusiva) funzione di mediazione tra essa, politica e Istituzioni, attraverso i grandi partiti di massa e le Organizzazioni sindacali.
L’organizzazione dei “diritti politici” in tutte quelle esperienze si è storicamente accompagnata a forme di associazionismo non “direttamente politico” (sportivo, culturale, dopolavoristico e anche mutualistico) che rispondeva anche a bisogni/diritti sociali.
Ma siamo comunque entro una lettura della “società civile” di tipo gramsciano: essa è l’area intermedia tra cittadini e Stato segnata dalle funzioni “dell’egemonia”. Dunque con una sfera di “autonomia sociale” fortemente limitata.

3.L’approccio “statalista” ai “diritti sociali” dell’esperienza storica italiana è fortemente segnato dai caratteri della Pubblica Amministrazione: più che in altre esperienze l’erogazione di servizi pubblici in risposta a “bisogni e diritti” è stata “assimilata” ai grandi apparati amministrativi (la scuola ne è un esempio che permane anche entro il processo innovatore innescato alla fine degli anni ’90), al loro “profilo organizzativo” e alla loro logica di funzionamento tradizionalmente legata al principio di legittimità e di imparzialità (solo recentemente corretti dalle affermazioni relative ai principi di economicità: efficacia, efficienza, produttività).
Da qui quello che ho più sopra indicato come “primato dell’offerta”. Diritti e bisogni di cittadinanza sociale sono letti, riconosciuti ed interpretati entro il filtro di una configurazione “sistemica” che sola li legittima e a cui risponde nelle forme standard della norma e della “imparzialità”.
La “domanda sociale” (l’insieme dei bisogni/diritti sociali), al meglio viene interrogata e interpretata, ma non ha forme di autoorganizzazione riconosciute e valorizzate nella creazione di un welfare system.

4.L’assimilazione della produzione di servizi alla cittadinanza sociale ai grandi apparati amministrativi ha anche, come corollario, la sovrapposizione alla mission sociale esplicita degli interessi e delle logiche interne a tali grandi apparati: gli esempi di quanto questi spesso si sovrappongano alla prima sono così numerosi (e spesso così negativi) che appare inutile ricordarli.
Il peso di tali “interessi interni” rappresenta un costo relativo supplementare che grava sull’efficacia e sull’efficienza della “produzione” in risposta ai “diritti sociali”; ciò non è certo tra le ultime cause della crisi specifica del modello di welfare, e della “rigidità” della spesa pubblica italiana. (Si pensi al costo dell’apparato amministrativo della scuola ed alla sua incidenza sulla quota di spesa dedicata al “prodotto”…).

Terzo step di riflessione: crisi della cittadinanza (crisi della democrazia?)

I frammenti di riflessione storica dei punti precedenti ci riportano agli elementi di crisi che caratterizzano, almeno a partire dagli anni ’80 del Novecento, i modelli di cittadinanza costruiti nelle diverse esperienze nazionali, e che falsificano ampiamente la modellizzazione progressiva di Thomas Marshall che ho utilizzato come spunto per l’avvio della riflessione. I fattori “strutturali” di tale crisi sono rintracciabili in sostanza su tre fronti.

Innanzi tutto la fine del modello fordista della grande industria produttrice di beni di massa. Una crisi che incrocia modelli produttivi, mercato dei beni e struttura della domanda, sviluppo della tecnologia, forme del “comando produttivo” nell’impresa. Al paradigma della stabilità e dello standard si sostituisce quello della flessibilità e della qualità.

In secondo luogo il processo di globalizzazione, che si interseca con il primo, ma che qui interessa descrivere come la perdita di corrispondenza tra “territorio delle regole e della cittadinanza” e Stato Nazionale. Quanto a dire processi sopranazionali congiunti a processi di “protagonismo” locale.

In terzo luogo la “crisi fiscale” dello Stato e la progressiva difficoltà di mantenere e espandere il welfare state e le politiche pubbliche di sostegno alla domanda aggregata.

Le analisi specifiche riempiono una messe notevole di letteratura “critica” che qui è impossibile citare in modo esaustivo: Horkheimer, Habermas, Offe, O’Connor, Crouch, Canfora, Hobsbawm, Bobbio, Dahrendorf, solo per fare alcuni nomi che con diversi approcci, dal sociologico all’economico, hanno analizzato tale crisi; fino alla “Microfisica del potere” con la quale Michel Foucault ha affrontato la critica del rapporto tra soggetto, suoi bisogni e identità e il rapporto con gli apparati “sistemici e funzionali” che li interpretano, legittimano, reprimono.

La “crisi della cittadinanza” è dunque processo complesso, lungo il quale molte “ragioni” si intersecano. In estrema e necessariamente parziale sintesi:

1.I diritti civili conoscono una fase di “destabilizzazione” a partire da un processo di falsificazione radicale dei fondamenti classici delle definizioni di cittadinanza: ius soli e ius sanguinis non corrispondono più alle “sistemazioni” tradizionali entro l’involucro statuale.
Si pensi ai problemi, diversi e di diverso segno, da un lato dei flussi immigratori internazionali, dall’altro alla internazionalizzazione della cittadinanza: per stare a noi per esempio le vicende della Costituzione europea.
Per inciso: a fronte della densità e drammaticità di tale “falsificazione storica” appaiono di molta buona volontà, ma di strumentazione culturale “spuntata” e spesso semplicemente “buonista”, tanti progetti scolastici di “cittadinanza europea” o di “multiculturalità”.

2.I diritti politici si misurano con una “crisi della democrazia” che falsifica il modello di rapporto tra istituzioni del potere e società civile, mediato dall’organizzazione politica dei grandi partiti di massa o, per altro verso, dalle grandi organizzazioni sindacali. (Crisi delle ideologie, delle appartenenze di classe; degli apparati dell’egemonia, in termini gramsciani)
Lo spazio della partecipazione e della militanza si svuotano residuando la mera funzione elettorale: la grande democrazia americana può eleggere “democraticamente” un Presidente attraverso una sorta di “colpo di stato” della Corte Suprema (2000); l’esportazione dei modelli elettorali conduce a pronunciamenti “democratici” che risultano destabilizzanti e inaccettabili (Iran, Iraq, Palestina, Bielorussia…) dalla comunità internazionale.
”L’assemblea, sentiti gli oratori, decide a maggioranza”: così Tucidite descriveva la democrazia ateniese. Oggi la mediazione politica è mediatizzazione: l’ assemblea è sostituita dai singoli davanti al televisore che ascoltano gli oratori. La moderna Assemblea è ricostruita da sondaggi e indici di gradimento. La “maggioranza” rischia costantemente di essere il veicolo per condannare Socrate.
Mai come oggi appare attuale la critica (per altro di ispirazione “conservatrice”) di Platone alla “teatrocrazia” ateniese.

3.La cittadinanza sociale, integrata e sviluppata attraverso il deficit, e “veicolata” attraverso la spesa pubblica e i grandi apparati “amministrativi” pubblici, entra in crisi sia dal lato dell’offerta (risorse pubbliche declinanti e costi aggiuntivi degli interessi intrinseci ai grandi apparati), sia dal lato della domanda (soggettivizzazione dei bisogni, impossibilità di standardizzare le risposte, richiesta di qualità che interseca quella di uguaglianza).
Dunque da un lato i vincoli oggettivi all’uso della fiscalità generale, che oltre certi livelli mette in concorrenza e tensione le convenienze dei singoli con il “benessere sociale”; dall’altro una forma nuova di “antagonismo fiscale” che accanto a quella tradizionale declina quella più moderna che misura puntualmente il rapporto costi/benefici dell’offerta pubblica.
L’operatore pubblico non ha più di fronte una sorta di “cittadino medio” i cui bisogni e diritti siano integrabili in apparati sistemici e funzionali consolidati; e il “cittadino reale” si raffronta con gli apparati pubblici interrogando criticamente il rapporto costi/benefici del “consumo pubblico e collettivo”.
O, se si vuole, ai costi dell’eguaglianza si sommano quelli “dell’inclusione”, mandando in crisi il modello di “universalismo” fin qui perseguito, fondato, appunto, su un idealtipo di “cittadino medio”.

Elementi di crisi nel rapporto Stato/cittadini sono generalizzabili a tutto il mondo occidentale; nel nostro paese la crisi è aggravata dal fatto che lo “statalismo” nazionale non ha il conforto del riferimento forte né alla “maestà” dello “statalismo emancipatore” dell’esperienza francese, né alla sua efficienza amministrativa, né alla professionalità “socializzata” dei suoi apparati e dei suoi dirigenti. (sugli esempi di prova è bello tacere).

Quarto step di analisi: Società civile e nuove “formazioni intermedie”

A partire dalla seconda metà degli anni ’90, e in parallelo con il consolidarsi degli elementi di crisi descritti precedentemente (ma non necessariamente in termini di rapporto causa-effetto con essi) si assiste ad un fenomeno di primaria importanza: la ripresa, in termini assolutamente diversi dal passato, delle articolazioni della società civile.

Di tale processo si possono mettere in luce due fondamentali direttrici, di cui la prima fa da sfondo e promozione della seconda, anche se non è strettamente riconducibile ai termini di “società civile”.

1.Si è accelerato il processo di riarticolazione e di riforma delle Istituzioni pubbliche.
Si tratta di un complesso di interventi che vanno dalla riforma della Pubblica Amministrazione, quale si delinea nei principi della “Bassanini”, al completamento del “programma” Costituzionale” in direzione della regionalizzazione e della valorizzazione del sistema delle Autonomie locali, iniziato trent’anni or sono con la prima e già ritardata tappa dell’istituzione delle Regioni, per finire con la stessa riforma costituzionale.
Quest’ultima è, come noto, per molti suoi aspetti un oggetto del contendere politico contingente; ma l’affermazione di principio fondamentale che lo Stato è una “componente” della Repubblica, insieme alle Regioni ed al sistema delle Autonomie locali, mantiene il suo valore fondante al di la del contendere politico contingente.
Non si tratta dunque di un semplice processo di “decentramento dello Stato”, ma della ridistribuzione delle funzioni e delle attribuzioni del “soggetto pubblico”, con “arretramento” dello Stato in quanto tale. (Corrisponde, per stare alla matrice di lettura proposta più sopra, ad una trasmigrazione di cella in direzione di un “modello societario”).
Esemplificativi del percorso, per stare agli argomenti di queste note, sono l’adozione esplicita del principio guida della sussidiarietà (richiamato con forza e completezza come “fondamento” nella stessa Legge 59/97 “Bassanini”) e altri provvedimenti conseguenti, come la riarticolazione del wellfare e la sua territorializzazione.
Inutile ricordare che la stessa autonomia delle istituzioni scolastiche è inserita in quella complessa operazione di riforma del “pubblico”.
La filosofia di fondo che ispira questi numerosi interventi che caratterizzano la seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso tende a “riscrivere e riprecisare” il ruolo dello Stato in un nuovo e compatibile sviluppo del welfare system.
Lo Stato deve: 1) definire il pacchetto di servizi sociali (e relativi standard di qualità) che si impegna ad assicurare a tutti i cittadini, in termini dirisposta ai“diritti sociali”. 2) Fissare le regole di accesso, valide per tutti, alle prestazioni così definite; dunque i necessari interventi redistributivi necessari a garantire l’universalismo degli accessi. 3) predisporre e attuare le forme di controllo e valutazione dei prodotti che rispondono a tali “diritti sociali”.
Questi sono gli impegni essenziali dello “stato regolatore” (lo Stato provider). Non escludono lo Stato producer, ma la produzione diretta è vincolata a considerazioni di efficacia, di rapporto costi/benefici, di composizione tecnica dei servizi offerti, di economie di scala connesse (anche) a tale composizione tecnica. Insomma a valutazioni di ordine “economico” (dove il termine è usato nella semantica originaria di “mezzi a adeguati ai fini”).
Lo Stato provider ridistribuisce “funzioni pubbliche, invece di concentrarle su se stesso, e ne mantiene alcune sulla base di scelte esplicite: tra queste quella essenziale di “promuovere autonomia”
Ovvio che il nesso Stato provider/producer disegna, al contrario, un terreno di confronto tutt’altro che “economico” ma fortemente caricato di valenza ideale/ideologica. Ed essa si fonde, spesso senza agevoli discriminanti, con processi di autodifesa di apparati, culture inadeguate dei dirigenti pubblici, inesperienza ed esilità gestionale di nuovi soggetti pubblici, o semplicemente timore dell’innovazione.
Basti qui ricordare che è empiricamente provato che l’accentuazione delle funzioni di produzione diretta da parte dello Stato ne mortifica, quasi proporzionalmente, le capacità di regolazione. Sicchè spesso a trasgredire le regole finiscono per essere proprio gli apparati pubblici

2.La crescita quantitativa e qualitativa di quelle “formazioni intermedie” che è assai arduo identificare con un solo “nome” data la varietà delle tipologie, che sono costituite dall’associazionismo, dalla cooperazione sociale, dal volontariato, dal no profit, dalle fondazioni.
Si tratta di forme di autorganizzazione dei cittadini che hanno caratteristiche molto diverse dal passato: non sono più “emanazioni” dell’organizzazione politica o sindacale o della mutualità, o dell’impegno “sociale” della Chiesa (anche se tutto ciò è compresente).
Dati recenti dicono di oltre tre milioni di cittadini variamente impegnati in tali attività.
Se si pensa al numero di persone coinvolte attorno ad esse, sia in termini di “utilizzatori” dei servizi e delle attività “prodotte”, sia in termini di coinvolgimento ideale, pur senza impegno diretto, si può ricostruire una dimensione che interessa molti milioni di cittadini.
Il “settore” (qualcuno usa il termine “terzo settore”, ma al pari di “formazioni intermedie” la semantica è deformata dai significati tradizionali) non ha una “regolazione” normativa uniforme.
Come noto esistono norme distinte per le associazioni, per la cooperazione sociale, per le fondazioni. Una norma per le ONLUS che ne definisce assetti economico-tributari di grande interesse e istituisce una Authority specifica (solo di recente costituita).
(La normativa: Legge 383/2000 disciplina delle associazioni di promozione sociale; Legge 266/91 Legge quadro sul volontariato; Legge 381/91 Disciplina delle cooperative sociali; Dlgso 460/97 Riordino delle discipline tributarie delle ONLUS, e infine la normativa, statale e regionale, sulle fondazioni. In alcune regioni, per fondazioni di carattere locale non è neppure previsto un minimodi “capitale”)
Sotto il profilo produttivo spesso questi soggetti intersecano le diverse definizioni giuridiche: vi sono “fondazioni operative” che producono beni e servizi e non si limitano all’erogazione; vi sono associazioni che operano agli effetti pratici in modo analogo alle cooperative sociali, ecc.
Contraddizioni ancora più significative vi sono tra le diverse norme specifiche e quelle del Codice Civile: questi soggetti sono regolati da norme comprese nel primo libro; la loro concreta operatività li fa essere spesso delle vere e proprie “imprese” (anche se non producono profitto), la cui regolazione tradizionale è invece affidata a tutt’altri dispositivi (libro quinto del Codice Civile). Senza contare alcune contraddizioni tra lo stesso Codice Civile e altre affermazioni fondamentali (programmatiche) della Carta Costituzionale.
Contraddizioni probabilmente inevitabili, che accompagnano lo sviluppo per alcuni versi tumultuoso e recente di queste nuove forme della autorganizzazione della società civile, cui la norma non riesce a dare interpretazioni piena. Non per questo, anzi proprio per questo, contraddizioni che meritano cura e attenzione per essere superate.
Ciò che unifica gran parte delle manifestazioni di tale fenomeno, in larga parte nuovo per il nostro paese, è il fatto che gran parte della loro attività impegna risorse economiche e lavoro per prodotti che si rivolgono alla cittadinanza, in termini di erogazione beni e servizi.
Attivano cioè un “mercato” (qualcuno parla di “mercato sociale”) sul quale si realizzano e si scambiano “valori” ( valore sociale, capitale sociale), ma non profitti. In questo senso la dizione “ noprofit” può essere considerata unificante.
La dimensione del fenomeno del “ nonprofit” è esemplificata dalla Tab. 1 che raccoglie i dati dell’ultimo censimento disponibile sul fenomeno (2001).
Le risorse complessive scambiate ammontano alla rispettabile cifra di oltre 37 miliardi di euro.
Dato il trend del fenomeno, dal 2001 ad oggi le cifre contenute nella tabella vanno probabilmente incrementate in modo assai significativo.
Se le misure di deducibilità fiscale (pur basse) previste per le imprese che effettuano finanziamenti alle ONLUS (fino al 2% degli utili di esercizio) trovasse piena applicazione, si è calcolato che arriverebbero a questo mondo cifre superiori a quanto ad oggi sarebbe capace di gestire.
E una riprova vi sarà con la dichiarazione dei redditi di quest’anno che introduce la scelta del contribuente per la destinazione del 5‰, che può essere indirizzato alle diverse ONLUS.
Si noti, infine, che una parte significativa di tali attività (circa il 13,5%) è diretta verso servizi e prestazioni che fanno riferimento all’istruzione ed alla ricerca.

Il fenomeno ha dunque una rilevanza tale da offrirsi come riflessione rilevante rispetto alle questioni di grande e radicale portata che disseminano le note precedenti: lo strutturarsi autonomo della società civile si offre ad una interpretazione matura della cittadinanza oltre la sua crisi; si offre alla riflessione sulla costruzione del welfare system come superamento della crisi del welfare state; si offre alla riflessione sullo sviluppo possibile della democrazia e sulla ricomposizione dei diritti di cittadinanza.

L’elaborazione in proposito è ricca di contributi che è impossibile citare tutti e che hanno rielaborato metafore di grande suggestione che si applicano variamente al fenomeno: dall’” economia civile” (S. Zamagni), al “ mercato sociale”, alla “ cittadinanza societaria” (P. Donati), alla “ economia della reciprocità” (L.Bruni) per tacere delle suggestioni della “ banca etica”, e della “ rendicontazione sociale”.

Sottolineo solamente, come spunto da sviluppare ulteriormente, che entro tale filone di riflessione e di esperienze si può rintracciare l’ipotesi di una ricostruzione e integrazione dei cosiddetti “diritti sociali” non più, o non solo, “dal lato della spesa pubblica” e del “deficit” come strumento integratore(crisi del welfare state), ma dal lato della “ produzione sociale” e della domanda.

Intersezioni

Il percorso di riflessione qui sintetizzato, mi porta a formulare, in gran parte in termini di interrogativi e di proposte di discussione, una ipotesi di ricongiunzione e intersezione tra lo sviluppo dell’autonomia delle scuole e quello della strutturazione di nuove e diverse “formazioni intermedie” costituite dalle autonome organizzazioni della società civile, alle quali si è fatto cenno precedentemente.

Se superiamo una concezione (ed una pratica) delle scuole autonome come mere articolazioni funzionali e strumentali e ne dilatiamo il significato e l’operato come “imprese sociali”, sia pure di “diritto pubblico” (la “doppia natura” messa in luce nel primo step di riflessione), si disegnano interessanti prospettive di raccordo.

Prospettive che riannodano sia la questione “materiale” delle risorse, sia il significato del prodotto istruzione e formazione rispetto alla integrazione della cittadinanza postmoderna, e rispetto alla crisi della democrazia ed alla metodologia della democrazia travagliata da quella crisi.

Il rapporto tra istituzioni scolastiche autonome e l’articolazione delle autonomie della società civile che corrispondono a quel fenomeno che in modo impropriamente sintetico possiamo indicare come economia e mercato nonprofit, può essere organizzato lungo due direttrici.

Le indico sotto forma di interrogativi.

Come può, la rete delle istituzioni scolastiche autonome partecipare al “ mercato sociale” che si va definendo come campo di attività produttiva e di scambio delle nuove formazioni intermedie, recuperando parte del valore scambiato, come fonte di risorse per la propria attività produttiva, a integrare con quelle ricevute dallo Stato come “prezzo” per le prestazioni essenziali da quest’ultimo definite e prescritte?

Reciprocamente: come può la rete delle istituzioni scolastiche autonome partecipare come “soggetto produttivo”, inserendosi nella articolazione di quelle nove e diverse “formazioni intermedie” la cui crescita rappresenta una delle novità sociali della “postmodernità” italiana?

Ovviamente i due interrogativi sono distinti solo per comodità analitica. Appare evidente che le risposte si sovrappongono.

  1. La possibilità (ed anzi l’invito) di costruire strutture di rete e di promuovere il lavoro di rete è una delle affermazioni fondamentali del Regolamento dell’Autonomia e di quelle, insieme alla autonomia di ricerca e sviluppo, praticate e realizzate con impegno e volontà tanto più rimarchevoli quanto meno produttive di esperienze consolidate e di lungo respiro.

    Il lavoro collaborativo (di rete) si è diffuso, ma spesso senza consolidare “soggetti nuovi”.

    Pure la norma consente un ampio spazio di esplorazione come la costituzione di consorzi, associazioni e anche (si veda la normativa citata) la partecipazione a “cooperative sociali” (l’art.11 della legge 381/91 prevede la partecipazione di persone giuridiche pubbliche purché condividano le finalità delle cooperative stesse: e le finalità educative sono espressamente indicate nell’art.1).

    Insomma è una possibilità concreta: enti pubblici possono dare vita a soggetti collettivi che afferiscono al codice civile e partecipano a tutti gli effetti al mondo nonprofit, alle sue regole di funzionamento e di finanziamento.

    Guardando alle esperienze fin qui condotte non solo si riscontra facilmente che hanno promosso lavoro collaborativi sub specie di collaborazione a qualche progetto ma senza dar vita a “soggetti” operativi nuovi, ma che il lavoro di retesi sia diffuso sopratutto tra “distanti”; raramente tra scuole ce operano nel medesimo territorio.

    Quanto a dire che l’autonomia ha mantenuto un assetto “atomizzato” gestendo ciascuna scuola per sé il rapporto con il territorio di riferimento. A meglio sono stati definiti “tavoli di confronto e concertazione con gli Enti Locali”.

    Più recentemente si assiste alla crescita di”associazioni regionali di scuole autonome”. Fenomeno interessante ma si tratta, per ora, in sostanza di “associazioni” cui partecipano i Dirigenti Scolastici e che propongono convegni, iniziative di formazione, ecc.

    Segnali, comunque, da usare però come una prima “segnaletica” nella direzione indicata: dare vita a soggetti “produttivi” che operino su quel mercato sociale che realizza e scambia valori, ma non profitti. (Si pensi, come valore di “segnale”, alle associazioni temporanee di impresa cui partecipano alcuni Istituti Superiori impegnati nei progetti IFTS.)

    La “rete” in tal caso è prioritariamente una rete tra vicini: capace cioè di costruire una “filiera del valore” in prossimità del territorio ed in interlocuzione con la cittadinanza i riferimento (una cittadinanza che anzi, sotto il profilo del diritto all’istruzione, si “costruisce” e ricostruisce, proprio in quel rapporto). Ed è una rete che si consolida dando vita a soggetti e concentrazione di risorse, e non, o non solo, in istanze di collaborazione tra monadi.

    Quale sia il guadagno di tale prospettiva mi pare evidente.

ØIn primo luogo superare, integrando le risorse, la logica della “piccola dimensione” che ha ispirato le prime realizzazioni dell’Autonomia.
Il “piccolo è bello” del dimensionamento delle Istituzioni scolastiche, se ha privilegiato “gestioni più semplici” o risposto a logiche di appartenenza territoriale di Enti Locali, presenta però evidenti diseconomie di scala rispetto alla capacità/possibilità di “produrre” le potenzialità dell’autonomia in termini di sevizi formativi al territorio o in termini di attività di ricerca e sviluppo.
Più è elevata la “composizione tecnica” del prodotto” più diventa essenziale dotarsi di una “massa critica” di risorse capaci di garantirla. Da questo punto di vista la problematica delle istituzioni scolastiche non è dissimile da quella della piccola impresa, necessitanti di servizi integrati a rete per il loro sviluppo reso problematico proprio dalla piccola dimensione.

ØIn secondo luogo dotarsi di strumenti che consentano l’interlocuzione autorevole, anche sotto il profilo delle risorse detenute, nel sistema di governance definito dalle titolarità plurime (Stato, Regioni e sistema delle autonomie).
Dal mondo delle municipalità di piccole e medie dimensioni (la gran pare dei Comuni Italiani) vengono interessanti processi di ricerca di dimensionamento ottimale per realizzare gli impegni di territorializzazione del welfare, come strutture consortili, aziende territoriali di servizio, programmazioni di area e di bacino.
Ricostruire, in orizzontale e in verticale, la filiera del valore dell’ istruzione e formazione (non esclusivamente strettamente scolastica) utilizzando appieno le risorse potenziali dell’autonomia scolastica (mezzi, personale, know how) attraverso soggetti sociali che prendono avvio dalle scuole stesse, è un modo per stare da protagonisti entro i processi di sviluppo locale.

  1. La prospettiva di un ingresso delle scuole autonome, consorziate e associate, nel mondo del “mercato sociale”, del nonprofit, dell’autorganizzazione della società civile, ha un coté interessante dal lato delle risorse economiche. (del resto la riflessione parte da qui) che delinea anche una prospettiva possibile di correzione delle strettoie cui oggi sottostà il finanziamento pubblico (oggi e in una prospettiva realistica che non si assegni al puro e disarmato “reclamarne di più”).

    Già si è ricordato che l’ammontare delle risorse mosse dal “ mercato sociale” è tutt’altro che trascurabile (si veda la tabella), e che in attuazione della normativa relativa al nonprofit e alle ONLUS, la possibilità di accedere a finanziamenti privati ha ancora un potenziale tutt’altro che esplorato (se il finanziamento possibile arrivasse al “terzo settore”, ad oggi quest’ultimo non sarebbe in grado di utilizzarlo al meglio). Che dire delle prospettive del 5‰ nella dichiarazione dei redditi?

    Si tratta di recuperare “ricchezza privata” per finalizzazioni pubbliche non utilizzando lo strumento della fiscalità generale oggetto oggi di crisi di consenso radicale (la sommatoria del tradizionale antagonismo fiscale con quello “nuovo” determinato alla crisi fiscale dello Stato e dal decadere delle “convenienze pubbliche”). Anzi, per qualche verso utilizzando possibilità di defiscalizzazione a fronte di scelte “mirate” in direzione di “valore pubblico” individuato dal contribuente stesso (la “responsabilità” della scelta volontaria).

    Il valore aggiunto della prospettiva non è però solamente quello quantitativo di recuperare risorse.

    Il fund raising di tanti Dirigenti Scolastici “imprenditivi” già esplora tale possibilità; ed analogo è il significato del ricorso alla contribuzione crescente delle famiglie al bilancio della scuola autonoma.

    Ma, evidentemente, il valore del contributo dei singoli privati è cosa assai diversa dal contributo che filtra attraverso strutture di autorganizzazione, che comunque corrispondono ad “imprese collettive”, dunque con regole e norme che lo Stato stesso ha definito.

    Chiedere e ricevere finanziamenti attingendo alla disponibilità a spendere delle singole famiglie è infatti una cosa (utile certo); ma recuperare finanziamenti attraverso, per esempio, una associazione formata da cittadini del territorio, o attraverso un consorzio pubblico/privato, o una fondazione dedicata alla quale partecipino imprese locali, significa contemporaneamente costruire un rapporto con forme di organizzazione della società civile che alimentano democrazia e partecipazione.

    Dunque “costruire insieme società civile” e cittadinanza “societaria”.

    La condizione di “cerniera” del disegno è quella della rendicontazione sociale che sancisce la trasformazione delle risorse “private” nella finalizzazione pubblica, per la produzione di valore pubblico. (citare numero della Rivista, ndr).

La prospettiva qui disegnata ha tre corollari di estremo interesse, ai quali accenno in chiusura e in sintesi, ben sapendo che comunque meriterebbero ulteriori approfondimenti.

  1. Incentiva le scuole autonome alla acquisizione di un “approccio produttivo” che supera quello definito dai puri e semplici “standard scolastici” in direzione dell’offerta complessa di servizi formativi al territorio, mettendoin produttvità le risorse umane, materiali, di know how detenute (dalla fomazione degli adulti, alla formazione professionale, ai servizi culturali territoriali).

    Già oggi alcuni Istituti scolastici tra i più attivi ed integrati nella comunità locale hanno una popolazione di utenti raddoppiata rispetto a quella delle classi di età scolastiche di riferimento: agiscono cioè come vere e proprie “imprese di formazione” accreditate e certificate per una gamma ampia di servizi formativi.

  2. Contribuisce a riequilibrare il baricentro del sistema di governance dell’istruzione e della formazione quale è stato ridefinito nella riforma costituzionale. Il dettato di salvaguarda contenuto nella ripartizione elle titolarità tra Stato e Regioni (… fatta salva l’autonomia elle istituzioni scolastiche…) rischia di non avere concreta attuabilità proprio per il ruolo”gravitazionale” dei due poteri forti dello Stato e delle Regioni.

    Il ruolo delle scuole autonome va cercato e affermato nel rapporto con la società civile e la forma concreta di esercizio della cittadinanza. La “legittimazione sociale” e il corredo di risorse materiali da essa ricavabile nello scambio con le strutture della società civile, costituisce la vera “forza” delle scuole autonome (necessariamente variamente associate).

  3. Contribuisce a riconnettere la “filiera del valore” prodotto dalle scuole allo sviluppo locale ed alle sue prospettive. Qui sta il senso profondo della riflessione sulla cittadinanza “oggi”, come insieme di diritti e obbligazioni.

    Mi si scuserà la digressione autobiografica.

    Per molti della mia età, le scelte di studio sono state prodotte da una ricongiunzione tra “vocazioni” individuali e una “idea” dello sviluppo della “città”. Ho un diploma in elettronica industriale preso all’Istituto tecnico nei primi anni’60. La condizione famigliare consentiva di esplorare l’istruzione come canone di avanzamento sociale, ma non in un disegno di lunga permanenza fino all’Università.

    L’elettronica industriale (i computer non c’erano) mi interessava certamente (anche se non mi è mai servita per il lavoro, che per altro non ho mai cercato: sono sempre stato cercato dal lavoro); ma la scelta individuale era proiettata in quella fase di sviluppo industriale del paese cui ci sentivamo collettivamente impegnati, tra convenienze di miglioramento “privato” e benessere collettivo, al di là delle differenze ideali, politiche, territoriali, o degli specifici andamenti del “mercato del lavoro”.

    Erano gli anni del dibattito e del confronto sulla “programmazione” e quelli della fase evolutiva dell’economia pubblica (poi sarebbe diventata “altro”).

    Un giovane studente poteva rintracciare, nella ricongiunzione sia pure non lineare tra prospettive individuali e collettive, il senso di una cittadinanza fatta di diritti e di obbligazioni, o se si preferisce di “doveri”. (Il senso dell’impegno nello studio).

    Si trovi oggi, nella stagione delle affermazioni del diritto/dovere all’istruzione, una argomentazione convincente, non banalmente esortativa, per spiegare ad uno studente non tanto che l’istruzione sia un suo diritto (ciò è tutto sommato compito facile); ma perché sia un suo “dovere”. Le convenienze individuali non disegnano doveri, se non sono ricongiunte ad un disegno collettivo di sviluppo della “città”. E questo è il punto debole di ogni sia pur volonterosa iniziativa di “orientamento”.

    La stagione storica è assai diversa da quella caratterizzata da una “idea generale” dello sviluppo per grandi e generali categorizzazioni (tipiche della fase fordista keynesiana) che alimentavano la discussione sulla programmazione, definitivamente tramontata con gli anni ’70.

    Il paradigma oggi si ripropone in termini di sviluppo locale e sue interconnessioni internazionali.

    Lo sviluppo locale, come messa in produttività di giacimenti storico-sociali-economici, dunque di risorse e di identità, è probabilmente il punto di ri-partenza per ripensare, discutere, affrontare lo sviluppo della città.

    Ritrovare la scuola, che utilizza appieno le potenzialità dell’autonomia, in questa impresa collettiva che è la formazione, è probabilmente il modo (un modo) per ricostruire, a partire da livelli molecolari,quella vocazione universalista della cittadinanza che la postmodernità mette irrimediabilmente in crisi.


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