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Come formare la classe dirigente

Tra le numerose peculiarità del Governo Monti, ce n´è una che non può passare inosservata: su 17 membri, più della metà sono professori universitari

22/11/2011
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la Repubblica

 
 
COME FORMARE LA CLASSE DIRIGENTE

RAFFAELE SIMONE


Raffaele Simone

Tra le numerose peculiarità del Governo Monti, ce n´è una che non può passare inosservata: su 17 membri, più della metà sono professori universitari, includendo nella categoria due rettori e perfino il presidente del Cnr. La presenza di accademici nei governi è una specialità italiana, che rimonta addirittura ai primi parlamenti della storia unitaria; ma stavolta è stato superato ogni record, dato che la percentuale ha sfondato di parecchio il tetto del cinquanta per cento. Questo fatto richiama l´attenzione su un paio di aspetti sostanziali del nostro mondo universitario, uno dei quali è di certo un inconveniente, l´altro è un pregio (anche se non del tutto). L´inconveniente. La presenza di professori in organi di governo di vario tipo è dovuta a vari motivi. Anzitutto alla continuità sostanziale tra università e sfera politica. Le usanze e le regole dei due mondi, infatti, si somigliano profondamente. In tutti e due, soprattutto, occorre di continuo organizzare maggioranze, procurarsi assensi e sostegni, assicurarsi o distribuire fondi, risorse e posti, gestire concorsi e carriere: cioè fare politica. Non per caso, nell´università italiana esiste un gran numero di corpi elettivi che votano di continuo su un numero incredibile di temi! In tutti e due i mondi, gruppi, scuole e clientele sono dunque componenti essenziali del sistema. Inoltre, dato il carattere poco costrittivo delle regole interne, una parte importante dei professori considera l´università come supporto per attività private e extra moenia (professioni, consigli di amministrazione, consulenze), anche perché queste non sono affatto interdette dalle norme in vigore. Perciò politici, avvocati, medici, architetti, economisti, notai e tecnologi sono spessissimo anche professori universitari. Da quest´affiliazione traggono una quota di reddito irrilevante, ma un cruciale incremento di prestigio; inoltre, al loro ambito di influenza si annette un´ulteriore sfera. In alcuni campi, l´affiliazione multipla è talmente scontata che si guarda con tenerezza il professore importante che non sia anche professionista, o all´inverso il professionista che non sia professore. Poco importa che così si generino incompatibilità e conflitti di interesse anche pesanti. Inoltre, si crea una crudele stratificazione in classi, dato che alle professioni lucrose e al potere esterno possono accedere solo i professori legati ad ambiti professionali forti, non certo filologi, letterati e algebristi.
Quanto la commistione giovi all´università, è da discutersi; sicuramente però giova alle professioni, che trasferiscono comodamente le loro logiche nell´università, tanto che il Blocco Accademico-Professionale è senz´altro uno dei poteri più forti del Paese. Non per caso i professori del governo Monti, tutti sicuramente bravissimi, non sono lì in quanto professori (cioè docenti, studiosi, ricercatori e simili), ma in quanto professionisti o dirigenti di strutture diverse.
Il pregio. A dispetto delle campagne denigratorie che ogni tanto le vengono scatenate contro, e malgrado la sua qualità globalmente non eccelsa, la nostra università è pur sempre un formidabile serbatoio di competenze, esperienze e capacità. Insomma, è un asset indispensabile, un arsenale di risorse a cui si può ricorrere nei momenti in cui occorrono persone competenti (che siano anche capaci, è un altro conto). Questo semplice fatto dovrebbe indurre tutti (a partire dal ceto politico) a un maggior rispetto verso il mondo universitario, che, malgrado le enormi difficoltà, finanziarie e d´altro genere, in cui si dibatte da decenni, riesce pur sempre a produrre figure di alto profilo e di riconosciuta preparazione. Ho detto però all´inizio che quest´aspetto, se è un pregio, non lo è per intero. Ce ne accorgiamo con una semplice comparazione. In Francia (come in Spagna), la presenza di universitari nei governi è limitatissima: ogni tanto appare qualche professore, e anche qualche professore-professionista, ma i serbatoi di competenze a cui la politica si rivolge sono altri. In Francia c´è l´Ena, la scuola nazionale di amministrazione, che conferisce, oltre a vaste conoscenze giuridico-economico-amministrative, anche la giusta dose di proiezione politica; e inoltre la sfera della dirigenza pubblica, che ha anche una solida capacità di conferire formazione avanzata e moderna. In Italia, non esiste nulla di simile, e l´università supplisce la mancanza, ma al prezzo di lasciarsi privare in tutto o in parte di quelle competenze. Onore al merito, dunque? Sì, ma con riserva. In Italia la diffusa pratica di attività professionali o di gestione distoglie dall´università e configura incompatibilità serie, delle quali nessuno si cura (l´università è uno dei luoghi più generosamente permissivi del paese). Se avessimo una scuola di amministrazione o se la dirigenza pubblica fosse anche sede di alta formazione, le competenze si potrebbero attingere lì e l´università fruirebbe in misura piena degli uomini e donne che ha scelto e a cui dà prestigio, invece di vederseli continuamente sottrarre da altri incarichi.
 

 


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