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Charlie Chaplin e il cattivo infinito

di Benedetto Vertecchi

29/01/2015
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"Siamo di fronte alla riduzione di un’attività (l'insegnamento) che si distingueva per il livello elevato di autonomia e di capacità progettuale a un’attività frazionata, costretta a riproporre (si può immaginare con quanta convinzione) le stesse operazioni dentro un sistema caratterizzato, invece che dall'assunzione di decisioni, dalla presenza di vincoli."

BenedettoVertecchi

CharlieChaplin e il cattivo infinito

Mi chiedo quali siano i riferimenti culturali di chi oggi discute di questioni educative. Se dovessi farmi un’opinione a partire dalle prese di posizione che si succedono da parte di esperti non meglio precisati, di tablerondistiche parlerebbero anche della coltivazione delle barbabietole sulla Luna, di politici che avendo orecchiato dieci parole in inglese le ripetono con scarsa consapevolezza del loro significato, non potrei che prendere atto che nel corso di questo inizio di secolo si è riusciti a compiere un’operazione che fino alla fine del precedente sembrava solo un incubo alla Zamjatin, una sorta di utopia negativa.Questi aveva collocato la sua narrazione in un futuro, che a noi non sembra poi così remoto, nel quale sarebbero andate perse le testimonianze delle antiche civiltà. Gli allievi nelle scuole non avrebbero più letto Omero, ma il solo grande capolavoro sfuggito alla distruzione e fortunosamente ritrovato nel corso di una missione archeologica, un autentico inno alla razionalità, dal quale si poteva comprendere quale raffinata civiltà fosse stata raggiunta prima della catastrofe. L’educazione sarebbe stata fondata sull’immortale poema costituito dall’orario ferroviario.

Ammetto di avere qualche esitazione nel citare l’opera di Zamjatin (Noi), perché non vorrei che qualcuno dei personaggi ai quali prima facevo riferimento prendesse alla lettera la proposta di leggere nelle scuole l’orario ferroviario. Né ci si mostri offesi perché esprimo questo timore: è quel che è accaduto nel caso di un’altra opera classificabile come utopia negativa, The Rising of the Meritocracy di Michael Young. È l’opera in cui per la prima volta si proponeva di realizzare una società fondata sul merito individuale, ma l’intento di Young era di sviluppare una rappresentazione paradossale dei rapporti sociali che ne sarebbero conseguiti, fino all’epilogo rivoluzionario che avrebbe spazzato via una simile aberrazione. Eppure, l’opera di Young è stata presa sul serio, e oggi siamo circondati da grilli parlanti che ripetono ossessivamente il mantra della meritocrazia. Si direbbe che ormai non è la conoscenza che conta, ma il sentito dire. È un sentito dire che si rafforza con l’essere ripetuto, fino a realizzare quel che Cicerone, nel De natura deorum, aveva riassunto nelle parole consensus omnium lex naturae. In altre parole si riconosce il significato di legge, di principio necessario, a ciò che è solo la ripetizione ossessiva di una parola o di una formula, accreditata dal saggio di turno e ribadita dal sistema della comunicazione sociale. È accaduto, quindi, che una parola coniata per esprimere un concetto negativo, meritocrazia, si sia affermata come capace di esprimere una prospettiva avanzata.

Ho l’impressione che qualcosa del genere stia avvenendo anche quando l’origine dell’uso distorto non sia altrettanto chiaramente identificabile, ma debba essere ricercata in un coacervo di formule ideologiche, non di rado in contraddizione fra loro, ma comunque beneficiate da un consensus omnium opportunamente amplificato. C’è qualcuno che dubita che l’università debba assumersi l’onere della formazione degli insegnanti? Sembra di sentir parlare Jacques De Lapalisse, tanto evidente pare una simile affermazione. Ma se solo provassimo a scindere la frase “l’università deve assumersi l’onere della formazione degli insegnanti” nelle parti che la costituiscono,potremmo giungere a conclusioni molto diverse. Per cominciare: si può insegnare ciò che non si conosce? Chiunque sia entrato in un’università, anche solo al fine di ripararsi dalla pioggia, dovrebbe essere consapevole dello stato di sconnessione che per lo più ne distingue l’azione didattica. Chi si è mai preoccupato diformare chi insegna nelle università? Sembra un calco del motore immobile aristotelico quello del formatore non formato (stavo per scrivere informato, ma mi sono reso conto per tempo dell’errore che l’ambiguità avrebbe prodotto). Per farla breve, la didattica nelle nostre università non è da considerarsi un punto di riferimento tale da accreditare la capacità di poterne estendere i benefici alle scuole degli altri ordini del sistema educativo. Un secondo punto da chiarire è che cosa si abbia a intendere per formazione. Nella tradizione educativa, la parola era generalmente associata all’aggettivo professionale, e stava a indicare un percorso finalizzato all’acquisizione di una competenza specifica: per esempio, usare un tornio, fare le crêpes,trasferire dati in un archivio digitale. È piuttosto evidente da questi esempi che la sequenza implicita è costituita dall’acquisizione di una capacità già definita e nella sua utilizzazione nel tempo breve. In altre parole, la logica della formazione riguarda il tempo breve, perché nulla assicura che ciò che si apprende continuerà a essere praticato nel tempo lungo. Anzi,proprio la formazione che corrisponde ad acquisizioni più recenti,come sono quelle che si collegano allo sviluppo tecnologico, ha una validità più breve, perché non è raro che non resista il tempo necessario per completare il percorso necessario per acquisire una determinata competenza. Ha senso proporre per gli insegnanti una formazione che segua la logica del tempo breve e della quale sia responsabile una struttura in stato comatoso, come sono in generale le università, e in particolare, con poche eccezioni, i settori che al loro interno si occupano di educazione?

Il modello teorico della formazione degli insegnanti, per i quali sarebbe meglio pensare a un percorso di studi e di esperienza che possa sfociare anche nell'insegnamento, sembra tratto dal cattivo infinito di Hegel. La competenza desiderata per gli insegnanti deriverebbe da un’operazione di sommatoria di elementi, che continuano ad aggiungersi senza mai raggiungere un’unità che abbia un senso. Si apre una rincorsa,nella quale ci si affanna a inserire ora questo ora quello, senza che si sia in grado di stabilire una qualche coerenza in una sommatoria incoerente, nella quale si affastellano conoscenze il cui fattore comune è l’assenza di ricerca (in pratica, il carattere non universitario della proposta di studio, sempre che si abbia ancora dell’università un’immagine che componga ricerca e insegnamento). L’idea che ci si fa degli insegnanti, ridotti a risorse umane secondo l’orrida definizione ora di moda nell’organizzazione delle aziende, non è strutturalmente diversa da quella che Charlie Chaplin ci ha offerto in Tempi moderni. Siamo di fronte alla riduzione di un’attività che si distingueva per il livello elevato di autonomia e di capacità progettuale a un’attività frazionata, costretta a riproporre (si può immaginare con quanta convinzione) le stesse operazioni dentro un sistema caratterizzato,invece che dall’assunzione di decisioni, dalla presenza di vincoli.

L’idea angusta del lavoro degli insegnanti deriva in gran parte dell’imporsi come egemone della cultura dell’organizzazione aziendale. È una cultura che manca di stabilità, come si ricava dagli innumerevoli processi di ristrutturazione (con quel che ne consegue, anche per le risorse umane). Bisognerebbe incominciare a interrogarsi se una simile cultura sia compatibile con l’educazione, evitando anche di confondere interpretazioni economiche dell’educazione con i modelli che al momento prevalgono nell’organizzazione produttiva. Non starò ancora a citare La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, in cui alla cultura era riconosciuta una funzione prioritaria. Voglio segnalare che Cosimo dei Medici aveva dato disposizione ai corrispondenti della Casa di comprare libri senza lesinare nella spesa (ce n’erano molti disponibili, provenienti in particolare dalle biblioteche dell’Impero d’Oriente, appena caduto sotto il dominio turco). Credo che, in un’ottica di lungo periodo, nessun investimento sia stato altrettanto fruttuoso. Ancora oggi, malgrado tutto, quell’investimento di Cosimo continua a dare i suoi frutti.


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