Il DDL Gelmini sull'Università tra iniziative di protesta e articoli di stampa
Prosegue in Parlamento la discussione sul Disegno di Legge. Tutta l'Università italiana deve battere un colpo
Man mano che la discussione sul DDL Gelmini si sviluppa in Parlamento (siamo agli emendamenti al Senato), rischia di verificarsi ciò che avevamo paventato fin dalla presentazione del provvedimento: la ricerca affannosa di soluzioni parziali, per categorie, che frammentano il fronte delle opinioni contrarie al DDL, e che indeboliscono le ragioni di una opposizione che per quanto ci riguarda è sull’impianto, e non riferibile solo a singole categorie di lavoratori.
La stampa, magari fornita di buone intenzioni, presenta a sua volta un quadro confuso dei problemi e delle priorità, di volta in volta evidenziando aspetti specifici a scapito della completezza del quadro. In questi giorni è stata ripresa con evidenza la protesta legata all’astensione dalla didattica da parte dei ricercatori in molti Atenei, ed è stato sottolineato il diffondersi della pratica della docenza non retribuita (che esiste, purtroppo, non da oggi). Si sono quindi accesi i riflettori sul tema ricercatori, sia quelli strutturati, sia i futuri a tempo determinato, e questo è certamente positivo.
Ciò che non si evince dagli articoli di stampa, però, è l’esistenza di un abnorme nodo strutturale che riguarda lo stato giuridico della docenza universitaria, in particolare per i ricercatori: una categoria di oltre 25.000 persone che aspetta risposte da trent’anni, continuando a fare ciò che non è previsto che faccia, in una condizione di provvisorietà istituzionale che è diventata regola stabile. Una categoria, peraltro, messa in esaurimento dalla Moratti nel 2004.
Il vero nodo del DDL per quanto riguarda i ricercatori è questo, e a ciò si risponde in un solo modo: eliminando la loro messa ad esaurimento e riconoscendo per intero la terza fascia docente tutelando, nel contempo, la loro prevalente (ma non esclusiva) attività di ricerca. La protesta dei ricercatori con l’astensione dalla didattica, che sosteniamo e sollecitiamo, in modo da far emergere con chiarezza un ruolo tanto insostituibile quanto negato, dovrebbe avere questo sbocco.
Altre soluzioni, in questa fase di discussione del DDL, si avventurano su un terreno emendativo che nessuno è in grado di garantire politicamente, nemmeno nella maggioranza di Governo, per tacere del Ministero. Ed ogni tentativo di ritagliare soluzioni parziali apre contraddizioni interne ai ricercatori, e tra i ricercatori e il resto del personale.
Noi, lo ribadiamo, siamo contrari alle ope legis, anche mascherate, come propongono alcuni emendamenti presentati, che nel passato hanno prodotto danni rilevanti. Risolvere a costo zero, con meccanismi di riconoscimento non valutativi, e solo per una parte dei ricercatori in servizio il problema della loro collocazione ci pare sbagliato, e non coerente con le richieste che tutte le associazioni ed organizzazioni della docenza hanno sempre sostenuto: tre fasce suddivise nell’ambito di un’unica figura docente. E per quale ragione un Governo che ha scelto di cancellare i ricercatori e di strutturare la docenza su due fasce dovrebbe riconoscere il ruolo agli stessi che vuole eliminare?
L’unica ragione possibile è la spaccatura del fronte della protesta, acquisendo il consenso di una parte di una delle categorie più colpite.
Ma il tema della terza fascia va collocato nell’ambito dell’economia dell’intero DDL: l’istituzione del ricercatore a T.D. di 3 anni + 3, non ha niente a che vedere con la “tenure track” anglosassone, che prevede percorsi certi e finanziati di accesso all’Università; nel caso del DDL è una lotteria senza alcuna ragionevole prevedibilità di successo, di fatto un’ulteriore fattispecie di precariato che si aggiunge alla giungla dell’esistente, seppure trattata meglio. Oltre al tema della terza fascia, è o no un problema - drammatico - la concorrenza che si apre tra i futuri ricercatori a T.D. e tutti gli altri? Una concorrenza che rischierà di essere del tutto arbitraria e fondata su parametri soggettivi (licenziare o meno il precario piuttosto che favorire o meno l‘interno strutturato)
Ancora: la questione del precariato è una piaga sanguinante che non si può far finta di ignorare. Il DDL conferma per intero la condizione medievale del mercato del lavoro universitario, e anzi la aggrava, perché con le nuove norme a molti precari con anni di servizio non sarà nemmeno più concessa la speranza della loro collocazione servile: saranno semplicemente buttati fuori senza appello. Può una comunità universitaria che rivendica la dignità dell’autogoverno affrontare una discussione di revisione profonda della sua identità senza dare risposta a questa anomalia bruciante?
In questo quadro, il reclutamento è sostanzialmente bloccato, e nelle intenzioni del Governo lo sarà per molti anni, il taglio dei finanziamenti mette le Università in ginocchio, i pensionamenti svuotano Facoltà e Dipartimenti. Di fronte ad un quadro di questa gravità, che opera una selezione malthusiana tra gli Atenei, è secondo noi profondamente sbagliato affrontare il confronto sul DDL con un atteggiamento di pura riduzione del danno, cercando di negoziare qui e là aggiustamenti e limature ad un provvedimento che ridisegna radicalmente, e drammaticamente in peggio, la nostra Università.
Occorre il coraggio di un progetto alternativo che metta al centro il valore dell’alta formazione pubblica e la valorizzazione di chi vi opera: noi abbiamo provato a disegnarlo nelle nostre proposte, a cominciare dalla priorità di un reclutamento ordinario stabile e dalla necessità di un reclutamento straordinario che apra ai giovani, ma occorre un rovesciamento dei paradigmi sull’Università veicolati dal Governo.
Occorre, soprattutto, che la comunità universitaria prenda coscienza di sé e si comporti come tale: un insieme di figure e ruoli diversi e complementari, legati dall’idea del bene dell’istituzione, e che riconosce e affronta i problemi in una chiave equa e solidale. Che sappia ritrovare una leadership culturale nei confronti della politica e del Paese. Che agisca come un corpo unico senza cedimenti corporativi, fondato sui principi della responsabilità, della valutazione, del merito. Adesso, non tra due anni.
Senza questa assunzione di responsabilità collettiva, i più deboli, precari e ricercatori, saranno i primi a pagare, ma l’acqua è destinata a salire, e saranno molto pochi quelli che riusciranno e tenere fuori la testa.
Roma, 23 marzo 2010
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