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DL 36 e università: un intervento forzato sugli SSD, un’azione grave sui compiti della docenza

La legge di conversione del DL 36 indirizza la revisione dei settori scientifici disciplinari dopo il parere contrario del CUN e permette agli atenei di modificare i carichi didattici di Associati e Ordinari.

04/07/2022
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La legge 79 del 29 giugno 2022, che converte il DL 36 del 30 aprile 2022 sul PNRR, è stata occasione per interventi vari e articolati anche in ambito universitario, con emendamenti che non facevano originariamente parte del decreto legge. In primo luogo, alcuni interventi sul preruolo universitario (vedi qui il commento in sede di discussione, qui appena approvato): queste norme migliorano in diversi aspetti, alcuni significativi, il testo uscito un anno fa dalla Camera dei Deputati e quello che si stava delineando al Senato (evitando di strutturare le borse di ricerca, sostituendo gli assegni con veri e propri contratti di ricerca, prevedendo una riserva di posti del 25% per RTDa e assegnisti sulle nuove tenure, introducendo nel CCNL il tecnologo a tempo indeterminato), sebbene non sia stata messa in discussione la presenza di un precariato strutturale, in un impianto complessivo che non si discosta da quello della Legge 240 del 2010 (a partire dal lungo periodo preruolo dopo il dottorato). Una parte delle nuove norme, però, riguardano un intervento di indirizzo sulla revisione dei Settori Scientifico disciplinari e sugli impegni della docenza universitaria.

Vogliamo subito sottolineare la sorpresa e lo sconcerto per questi ultimi interventi. Un decreto legge è uno strumento costituzionalmente delicato: introdurre nella legge di conversione di un decreto ulteriori provvedimenti, impedendo di fatto, con le sue procedure i suoi tempi stretti di confronto, una valutazione appropriata nelle Camere e nel paese, è in generale discutibile. Intervenire su queste due questioni lo è in modo evidente. In primo luogo, sugli SSD, solo pochi mesi fa il Ministero dell’Università e della Ricerca, in modo improvvido e forzato, aveva definito indipendentemente dal Consiglio Universitario Nazionale una proposta di revisione di SSD e ordinamenti didattici, che inusualmente aveva trovato il 24 marzo un parere non favorevole del CUN. Appare quindi oggettivamente una forzatura, a valle di questa dinamica, trovarsi oggi che in un provvedimento di legge governativo siano approvati dal Parlamento emendamenti di indirizzo al CUN, predeterminando così i suoi lavori. In secondo luogo, poi, si ritiene grave e inopportuno che un cambiamento sostanziale dei compiti della docenza universitaria, di fatto il suo orario di lavoro, si materializzi improvvisamente, senza di fatto che lo stesso mondo universitario, oltre che probabilmente molti deputati e senatori, siano consapevoli di quanto si stava proponendo e decidendo.

Nello specifico, infatti, si sono previsti due interventi, introducendo all’art. 14 comma 6 del DL una serie di interventi (dal 6-bis al 6-sexties) in cui:

  • si affida al Consiglio Universitario Nazionale la revisione degli attuali Settori Scientifico Disciplinari (SSD), prevedendo entro 90 giorni una sua proposta di istituzione dei nuovi Gruppi Scientifici Disciplinari (GSD), che sostituiranno sia nell’inquadramento, sia per i compiti dei docenti, sia nei piani di studi gli attuali SSD e gli attuali Settori Concorsuali (SC); tali nuovi GSD dovranno avere come massimo il numero degli attuali SC (190), potranno comunque essere articolati in SSD per gli ordinamenti didattici e la relativa afferenza dei docenti (6-bis);
  • si modifica l’art. 1, comma 16, della legge 230 del 2005, che regola i compiti dei docenti universitari, prevedendo che le 120 ore di didattica siano non più dedicate all’attività frontale, ma per lo svolgimento dell’insegnamento nelle varie forme previste dagli atenei; inoltre, le possibili variazioni di questo impegno, sulla base dell'organizzazione didattica, della specificità  dei settori scientifico-disciplinari e del rapporto docenti-studenti, non saranno più regolate da un Decreto Ministeriale, ma semplicemente da Regolamento di Ateneo (6-sexies).

Sulla revisione degli SSD, anche come FLC abbiamo subito segnalato significative perplessità e sostanziali contrarietà all’intervento originariamente proposto dal Ministero dell’Università e della Ricerca, ancor prima del parere del Consiglio Universitario Nazionale, poi confermate in una partecipata iniziativa nazionale. L’intervento proposto, infatti, rischiava nel combinato disposto tra revisione degli SSD (parificati ai Settori concorsuali) e flessibilizzazione degli ordinamenti didattici, di radicalizzare l’autonomia anche nell’offerta formativa, di fatto erodendo il sistema universitario nazionale. Il parere del CUN, nella sostanza e nelle argomentazioni, ci è parso che ricalcasse largamente le nostre valutazioni e le nostre preoccupazioni.

L’intervento parlamentare, di fatto, indirizza strettamente e predetermina una revisione degli SSD, ricalcando sostanzialmente quanto su questo era delineato nella proposta ministeriale. Il parere contrario del CUN, l’iniziativa della FLC, le tante perplessità e opposizioni incontrate (non nella CRUI, che ha accolto positivamente l’iniziativa e anzi avrebbe voluto radicalizzarla, con il consueto spirito con cui interviene nelle politiche universitarie) hanno comunque portato ad alcuni risultati. Il nuovo intervento normativo riafferma infatti positivamente le prerogative del CUN (affidando appunto a questo organismo, come istituzionalmente corretto, la proposta di revisione del DM 270/2004) e, anche nel merito, introduce una fondamentale salvaguardia sugli ordinamenti didattici, permettendo la possibilità di mantenere nei Gruppi un’articolazione per Settori Scientifico Disciplinari (in alcuni casi fondamentale per garantire autonomia disciplinare e un quadro nazionale uniforme nell’offerta formativa). Quello che colpisce negativamente è la scelta di imporre per legge che i nuovi Gruppi Scientifico disciplinari non dovranno superare l’attuale numero dei Settori Concorsuali (190). Come ha scritto lo stesso CUN lo scorso 24 marzo, nel suo parere non favorevole a quella proposta, “i Settori Concorsuali sono stati introdotti dall’articolo 15 della Legge 30 dicembre 2010, n. 240, per consentire lo svolgimento delle procedure di reclutamento dei docenti con il vincolo che vi afferiscano «in sede di prima applicazione, almeno cinquanta professori di prima fascia e, a regime, almeno venti professori di prima fascia». I SC non sono adatti a identificare discipline di insegnamento, anche perché possono essere costituiti da aggregati di più settori scientifico-disciplinari (SSD) non intercambiabili ai fini didattici. La sostituzione meccanicistica dei SSD con i SC renderebbe estremamente difficile la definizione di un percorso formativo utile a raggiungere gli obiettivi culturali della classe, introducendo incertezza, se non anche indeterminatezza, sia nella declaratoria e nelle tabelle della classe, sia negli ordinamenti didattici dei corsi di studio.”

Noi ne siamo convinti ancora oggi. Per questo riteniamo che l’uso dei Settori Concorsuali come base di partenza per la definizione dei nuovi Gruppi Scientifico Disciplinari sia un errore: l’imposizione di questo stesso numero di riferimento (190) non può infatti che portare a questa conseguenza, in quanto qualunque diversa configurazione in un settore non potrebbe che comportare parallele  riaggregazioni in un altro. Per questo avevamo accolto positivamente e in qualche modo sostenuto l’ipotesi, comparsa originariamente nell’emendamento Verducci, di prevedere come limite massimo non quello degli attuali SC, ma i 3/5 degli attuali SSD (cioè 230 GSD): pur costringendo ad una severa riduzione, avrebbe dato al CUN non solo una flessibilità per non gestire meccanicamente l’equivalenza tra SC e GSD, ma anche suggerito l’opportunità di rivedere l’insieme dei settori disciplinari, costruendo appunto questi gruppi con un principio diverso da quello degli attuali SC (fondato sulla numerosità die docenti ordinari), adeguato all’offerta formativa piuttosto che all’inquadramento e la chiamata dei docenti (come il CUN stesso suggeriva appena tre mesi fa).

Infine, si ritiene molto pesante e negativo l’intervento sugli impegni dei docenti. L’articolo 1, comma 16, della legge 230 del 2005 (la cosiddetta riforma Moratti, mai concretamente applicata in quanto sostituita dalla cosiddetta Gelmini, 240 del 2010, ma nel contempo mai abrogata) regola tuttora retribuzioni e compiti dei docenti universitari. Il suo testo, infatti, recita: resta fermo, secondo l'attuale struttura retributiva, il trattamento economico dei professori universitari articolato secondo il regime prescelto a tempo pieno ovvero a tempo definito. Tale trattamento e' correlato all'espletamento delle attività scientifiche e all'impegno per le altre attività, fissato per il rapporto a tempo pieno in non meno di 350 ore annue di didattica, di cui 120 di didattica frontale, e per il rapporto a tempo definito in non meno di 250 ore annue di didattica, di cui 80 di didattica frontale. Il termine frontale, nei Regolamenti degli atenei (a cui la legge 240 del 2010, art. 6 comma 2, affidava il compito di stabilire modalità e criteri dei loro compiti didattici e di servizio) ha sempre compreso tutte le diverse tipologie didattiche curriculari, comprese non solo le classiche lezioni universitarie (comunemente chiamate frontali), ma anche seminari, laboratori, tirocini, esercitazioni, attività pratiche guidate e quant’altro fosse previsto nei piani di studio che comportasse un’azione didattica di un docente ed erogasse un qualche Credito Formativo Universitario. E’ evidente allora che l’introduzione in questo articolo, al posto di frontale, della nuova definizione (per lo svolgimento dell’insegnamento nelle varie forme previste) non si riferisce alle modalità delle lezioni in presenza, ma alla possibilità di allargare ulteriormente le forme previste di insegnamento, a partire da quelle spurie e indefinite della didattica a distanza che si sono sviluppate in questi anni di emergenza sanitaria. Come FLC, siamo interventi in piena pandemia per segnalare non solo i problemi insiti nella videoregistrazione delle lezioni, ma anche per sottolineare l’importanza che, al di là dell’emergenza pandemica, le forme dell’insegnamento siano stabilite nazionalmente, con criteri e impianti uniformi, proprio per mantenere effettivo il sistema universitario nazionale. Introdurre surrettiziamente e genericamente un ampliamento delle forme della didattica, senza indirizzi e regolamenti nazionali, con un emendamento ad un DL, affidando di fatto ai Regolamenti di ateneo la sua declinazione, riteniamo sia l’ennesima radicalizzazione dell’autonomia universitaria che rischia di picconare, lentamente ma progressivamente, proprio l’uniformità del nostro modello universitario.

Sul piano sindacale, ancor più grave e pesante è l’altro intervento sulla flessibilità delle 120 ore di impegno didattico. Lo stesso articolo 1, comma 16, della legge 230 del 2005, nel periodo successivo riportava: le ore di didattica frontale possono variare sulla base dell'organizzazione didattica e della specificità e della diversità dei settori scientifico-disciplinari e del rapporto docenti-studenti, sulla base di parametri definiti con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Si stabiliva cioè, in considerazione delle diverse specificità e organizzazioni didattiche dei diversi settori (che avrebbero potuto comportare diversi impegni da parte del docente), una possibile modulazione dei carichi di lavoro dei docenti nei diversi SSD. Nel quadro di uno stato giuridico nazionale, seguendo il principio dell’uniformità di lavoro a parità di retribuzione, veniva però ovviamente stabilito che questa eventuale modulazione dei carichi didattici fosse uguale in tutti gli atenei e quindi fosse definita per Decreto Ministeriale. Oggi invece, in un emendamento di un DL, si assegna tale incombenza ai Regolamenti di Ateneo. Ne consegue che, nei prossimi mesi, potremmo vedere che le stesse lezioni di geografia, matematica, archeologia o quant’altro, potranno comportare carichi didattici diversi alla Sapienza di Roma, al Politecnico di Milano, all’Università di Teramo, alla LUISS, a Unicusano Telematica o in qualunque altra università italiana. Sul piano generale, è evidente il rischio di introdurre ulteriori divergenze nei rapporti di lavoro dei docenti tra i diversi atenei, erodendo ulteriormente l’attuale stato giuridico nazionale (dopo gli interventi che assegnano ai regolamenti compiti generali, scatti di anzianità, procedure disciplinari e chiamate). Sul piano specifico, poi, è altrettanto evidente il rischio che alcuni atenei, magari quelli sotto organico per problemi di bilancio o quelli che si propongono prioritariamente un profitto dalle proprie attività, innalzino strumentalmente i carichi didattici in una serie di settori disciplinari, scaricando così su lavoratori e lavoratrici la tenuta dei propri conti (didattici e finanziari).

Come sindacato, ovviamente, vigileremo sull’applicazione concreta di queste norme. Rimane il fatto che sia sul fronte dei settori disciplinari, sia sul fronte dei compiti dei docenti, proseguono gli interventi condotti secondo una logica di estensione e approfondimento dell’autonomia universitaria, che rischia come abbiamo sottolineato più volte di stravolgere l’università italiana. Per questo ribadiamo la necessità di una svolta di fondo nelle politiche universitarie, proprio oggi che arrivano dopo un decennio perdute nuove risorse in grado di rilanciare il nostro sistema universitario, per superare quella logica competitiva e disgregante che si è imposta nel quadro delle leggi Moratti e Gelmini. Ora, prima che sia troppo tardi.