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Rodari ed io (molto modestamente) sulla felicità

Il saluto di una maestra di Milano che sta per andare in pensione.

29/06/2020
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Per essere sicuro di non sbagliare a rispondere, sono andato a cercare in un grosso vocabolario la parola «felicità» ed ho trovato che significa «essere pienamente contenti, per sempre o per un lungo tempo». Ma come si fa ad essere «pienamente contenti», con tutte le cose brutte che ci sono al mondo, e con tutti gli errori che facciamo anche noi, ogni giorno dell’anno?
Ho
chiuso il vocabolario e l’ho rimesso in libreria, con molto rispetto perché è un vecchio libro e costa caro, ma ben deciso a non dargli retta.
La
felicità deve essere per forza qualche altra cosa, una cosa che non ci costringa ad essere sempre allegri e soddisfatti (e un po’ stupidi) come una gallina che si è riempita il gozzo.
Forse
la felicità sta nel fare le cose che possono arricchire la vita di tutti gli uomini; nell’essere in armonia con coloro che vogliono e fanno le cose giuste e necessarie. E allora la felicità non è semplice e facile come una canzonetta: è una lotta.
Non
la si impara dai libri, ma dalla vita, e non tutti vi riescono: quelli che non si stancano mai di cercare e di lottare e di fare, vi riescono, e credo possano essere felici per tutta la vita”.

(Da "Il libro dei perché" di Gianni Rodari)

Lascio la scuola e non sono per niente felice perché non sono ancora pronta e soprattutto perché a volte vedo cose che non mi piacciono.

La felicità per me è sempre accompagnata da una certa insoddisfazione e inquietudine perché significa volere di più e lottare forte per averlo. Il pane e le rose, senza furbizie e compromessi - e soprattutto - rifiutando categoricamente di essere “ragionevole”.

La scuola è stato il luogo costitutivo in cui ho imparato a dissentire e ad argomentare i miei e altrui desideri, a trovare degli alleati per combattere le prime ingiustizie che ho sperimentato e cominciato a riconoscere.

Sin dalla seconda elementare, la prima è stato un vero disastro perché non parlavo ancora italiano, le mie compagne che venivano dalle campagne vicine, trattate come inferiori dalla maestra. Contadine, figlie di contadini “ignoranti”, sono diventate le mie pari da difendere e con le quali condividere il tempo tra uguali, le difficoltà, i sogni, i diversi talenti (Morgatico coraggiosa passava sotto la pancia delle mucche e sfidava il gallo, mentre a scuola era paurosa e silenziosa. Martino sapeva fischiare così forte e lontano che riusciva a richiamare tutte quelle che abitavano nei poderi vicini dell’Ente Riforma, Lavista imbattibile a “palla avvelenata” ecc.).
E come? Nel pomeriggio venivano tutte a casa mia a fare i compiti e in questo modo imparavamo insieme perché parlavamo anche in dialetto e così il giorno dopo nessuna sarebbe più stata derisa dalla maestra di turno che veniva dal capoluogo e non capiva un tubo di chi eravamo noi, bambine di Stornarella, paese di emigranti del Tavoliere di Puglia.

A scuola, come insegnante, ho riconosciuto subito nelle bambine e nei bambini venuti d’altrove dei compagni di lotta con cui fare insieme una strada entusiasmante per la conquista di diritti.

L’8 settembre del 2019 mi sono accorta per caso che erano passati esattamente 30 anni dalla Circolare ministeriale n. 301 del 1989, la prima sull’inserimento scolastico, dal titolo chiaro, quasi perfetto: “Inserimento degli stranieri nella scuola dell'obbligo: promozione e coordinamento delle iniziative per l'esercizio del diritto”, a firma dell’allora ministro Sergio Mattarella.
Per la legislazione si faceva riferimento alla Costituzione Italiana e alla Dichiarazione Internazionale dei Diritti del Fanciullo che in Italia è stata ratificata solo successivamente, nel 1991.

Quello è stato il mio approccio da subito, l’esercizio del diritto, e non l’accoglienza come bontà d’animo, disponibilità ad accogliere, charity, compensazione.

Da lì mi sembrava sarebbe partito un circolo virtuoso grazie al quale avremmo cancellato ogni disuguaglianza, una piramide dei bisogni di Maslow da rovesciare o da far crescere e salire sempre più in alto, fino al cielo.

Nel 1993 ho steso il primo Protocollo di accoglienza e negli anni successivi declinato una serie di obiettivi irrinunciabili:

  • Il diritto all’istruzione;
  • Il diritto a una “scuola di serie A”;
  • Il diritto di apprendere l’italiano per comunicare e per studiare;
  • Il diritto alla lingua madre e al plurilinguismo;
  • Il diritto di essere bambini e non gli interpreti della scuola e della famiglia;
  • Il diritto all’identità e al doppio permesso di essere se stessi da parte dei genitori e della scuola;
  • Il diritto di vivere la città, fare amicizia, progettare il futuro;
  • Il diritto al ricongiungimento e alla coesione familiare;
  • Il diritto dei genitori di prendere la parola e apprendere la lingua dei figli.

Alunni con Cittadinanza Non Italiana”, non so quando esattamente e da dove sia venuta fuori questa definizione, di carattere esclusivamente giuridico, utilizzata del Ministero.

La “non cittadinanza” per me rappresenta il tradimento più grande da parte degli adulti nei confronti dei diritti delle bambine e dei bambini figli di concittadini immigrati.
Solo chi conosce le trafile, le incertezze, le ansie per il rinnovo del permesso di soggiorno, può capire quanto sia importante essere “riconosciuti” come Cittadini.

E se con una bella dose di retorica affermiamo “Nella mia scuola nessuno è straniero!”, io penso che oggi invece dovremmo cominciare a dire “Nella mia scuola siamo tutti stranieri!” fino a quando questa ingiustizia non sarà cancellata perché…

Nei bambini, tutti i bambini, il futuro di Milano.

Arcangela Mastromarco