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Precari, pagati poco, con la valigia pronta: cosa significa essere docenti nella scuola italiana

I più fortunati, quelli che hanno una cattedra, sono tra i peggio retribuiti in Occidente. Gli altri possono essere costretti a fare centinaia di chilometri per una supplenza. Il ministero promette incentivi ai meritevoli, ma tutti guadagnano una miseria

24/05/2023
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L'Espresso

C’è chi entra di corsa perché è tardi e chi lo fa perché è il modo per fare sport. C’è chi ripete a memoria la lezione, si mangia le unghie, ha le labbra ancora sporche di caffè; o chi arriva a scuola che è già stanco. «Alcuni studenti nella mia classe piegavano le braccia sul banco, appoggiavano la testa e si mettevano a dormire», racconta Clara, una professoressa appena andata in pensione che per tanti anni ha insegnato all’Istituto alberghiero Einstein-Nebbia di Loreto, nelle Marche. «Provavo a svegliarli con garbo, chiedevo di seguire, ma pochi minuti dopo avevano di nuovo gli occhi chiusi. Non aveva senso innervosirsi; sapevo che avevano fatto tardi la sera prima per lavoro, in un bar o in un ristorante, per iniziare la professione che avrebbero portato avanti in futuro, visto il percorso di studi che avevano scelto. Oppure si erano svegliati all’alba per raggiungere l’istituto dai paesi dell’entroterra, distanti anche più di un’ora. C’erano quelli che non avevano voglia di fare niente e venivano solo perché erano obbligati dai genitori. Ma molti erano desiderosi di confrontarsi, di conoscere e conoscersi. Ho sempre avuto un buon rapporto con i miei alunni», spiega Clara immergendosi tra i ricordi di una vita passata tra gli adolescenti.

Sono più di 8 milioni le persone che ogni giorno frequentano la scuola. Tutte diverse: per età, inclinazioni, gusti, passioni, abitudini, costumi, generi, tradizioni e contesti sociali. Costrette a trascorrere ore in un luogo che forse, se avessero potuto, non avrebbero scelto, ma che nella maggior parte dei casi si rivela essere un’opportunità. Obbligate ad avere a che fare quotidianamente con compagni o colleghi con cui mai avrebbero pensato di intrecciare anche un’amicizia. Sono, infatti, quasi un milione i lavoratori della scuola, tra docenti e personale amministrativo, tecnico o ausiliario (Ata), a cui si affiancano educatori, psicologici e tutte le altre figure professionali necessarie al percorso. Mentre 7 milioni e 300 mila sono gli studenti, secondo le stime di Flc-Cgil. Di questi, circa 800 mila non hanno cittadinanza italiana: il 10,3 per cento del totale, per i dati forniti dal ministero dell’Istruzione che si riferiscono all’anno 2020/21. Ragazzi originari di quasi 200 Paesi del mondo, soprattutto europei, ma anche africani e asiatici. Il 66,7 per cento è nato in Italia, la maggior parte vive nelle regioni del Nord.

«Frequentare la scuola è anche un modo per conoscere culture con cui altrimenti non è detto che mi sarei confrontata. Si crea un mix stimolante in classe. Ma capitano pure episodi di razzismo: quando gli studenti litigano tra loro, la maggior parte delle offese si basa sul Paese di provenienza», racconta Michela, docente di sostegno un istituto professionale di Bologna: «Il problema è che moltissime classi sono numerose ed è difficile seguire tutti gli allievi. Ognuno ha differenti attitudini, capacità o proviene da un contesto sociale specifico. Parlare di didattica inclusiva non dovrebbe tradursi nell’elaborare certificazioni con lo scopo di includere soggetti con proprie peculiarità in quella che viene definita la “bolla della normalità”. Significa, semmai, sviluppare metodi di apprendimento che rispettino i modi di ciascuno. Anche perché la normalità di oggi è standardizzata, competitiva, basata sui voti. La gran parte del lavoro d’inclusione ricade sulla buona volontà del personale, perché la scuola è ingabbiata in una didattica vecchia. La quale porta persino a promuovere alunni senza che abbiano acquisto le competenze necessarie, solo per non penalizzarli. Perché, in un certo senso, i docenti sanno di non aver garantito allo studente il massimo per imparare secondo le sue possibilità. Questo, unito alla scarsa considerazione che la società sembra avere della scuola, ha fatto sì che i percorsi formativi perdessero la capacità attrattiva che, forse, in passato hanno avuto: “Prof, ma che ci faccio con il diploma? A che mi serve?”, mi chiedono a volte gli studenti».

È d’accordo Luigi, educatore in un istituto professionale a Conegliano, in Veneto. Abita a Napoli, ma ogni anno si sposta al Nord per i mesi in cui c’è la scuola. È uno dei quasi 225 mila precari grazie ai quali funziona il sistema dell’istruzione in Italia. In pratica, un quarto del totale del personale docente ha contratti a termine, secondo i dati del ministero dell’Istruzione risalenti ad agosto 2022. «Ogni anno, di solito verso novembre, scopro se sarò chiamato a insegnare. Succede che il giorno prima per il giorno dopo vengo a sapere di dovermi trasferire a quasi 800 chilometri da casa. Il primo anno sono stato chiamato in una scuola elementare per una supplenza, avevo contratti che si rinnovavano ogni mese, sulla base del certificato medico che la docente che stavo sostituendo inviava alla scuola. Un’ansia continua. Ciò ha reso molto difficile per me anche cercare un appartamento, visto che i proprietari chiedevano un periodo di permanenza minimo che non potevo garantire».

Stabilità che non ha neanche Fabio, che ha iniziato come collaboratore scolastico: «Ho 28 anni, sono laureato in Linguistica. Mi sono trasferito a Desenzano del Garda da Napoli per lavorare. Ma per mesi non ho percepito lo stipendio con regolarità; succede spesso a chi ha contratti brevi, a causa di una inefficiente comunicazione tra il ministero dell’Economia e quello dell’Istruzione che si ripete ogni anno». Da febbraio Fabio lavora come docente di sostegno nella stessa scuola dove faceva il collaboratore, grazie alla messa a disposizione, cioè una candidatura informale, spontanea, che gli insegnanti possono inviare direttamente all’istituto: «Oggi il mio stipendio è ancora più basso di quello che avevo prima, perché faccio meno ore, ma almeno mi occupo di ciò per cui ho studiato. Condivido l’appartamento con altri colleghi perché vivere fuori casa con retribuzioni così basse è complicato».

Come si capisce, infatti, dal rapporto “Education at a Glance 2022” dell’Ocse, gli insegnanti italiani sono tra i meno pagati d’Europa. La differenza c’è in tutti i gradi della scuola: a partire dalla primaria, in cui il divario rispetto alla media è del 15,7 per cento, ovvero 6.286 dollari l’anno. Per la scuola media di primo grado il distacco scende al 14 per cento. Mentre i docenti delle superiori guadagnano il 12,7 per cento in meno rispetto alla media Ue. Secondo un’elaborazione della fondazione Openpolis, gli insegnanti italiani sono anche i più anziani dei Paesi Ocse: quelli di almeno 50 anni, nel 2019, erano il 58 per cento nelle primarie e il 58,6 per cento nelle secondarie. In Germania, invece, il 36 e il 42 per cento; in Francia, il 23 e il 33. La media Ocse è del 32,6 per cento per le scuole primarie e del 37,9 alle secondarie.

«Il problema è anche che i docenti guadagnano meno di chi, a parità di titolo, lavora nel resto della Pubblica amministrazione», puntualizza Alessandro Rapezzi, componente della segreteria nazionale della Flc-Cgil: «Prima di pensare agli incentivi salariali di cui ha parlato il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, ritengo che si dovrebbe garantire uno stipendio dignitoso di base per tutti. E fare chiarezza su quali e quanti insegnanti sono necessari al sistema scolastico per offrire una buona qualità della didattica. Oggi, invece, ci sono graduatorie infinite per alcune classi di insegnamento, per storia e filosofia, ad esempio, che costringono tanti precari ad allontanarsi da casa pur di lavorare. Dall’altra parte, c’è una mancanza di docenti strutturale, come succede per il sostegno o per gli insegnanti d’infanzia e primaria. Manca la programmazione».

La stessa che ci vorrebbe, spiega Rapezzi, quando si parla di accorpamento delle scuole: «Perché nel nostro Paese c’è un doppio problema, quello delle classi sovraffollate nelle aree urbane e quello dello spopolamento delle aree interne. Chiudere una scuola in un Comune di pochi abitanti è un atto irreversibile. E nel frattempo si costringono gli studenti a spostarsi per studiare». Il pendolarismo, però – come aveva spiegato a L’Espresso Stefano Piziali, responsabile programmi Italia-Europa dell’ong WeWorld – «è uno dei fattori alla base della dispersione scolastica, che è già alta»; non solo, rende più difficile per gli adolescenti creare spazi di aggregazione nei territori in cui sono nati.

«L’intervento per accorpare le scuole, previsto dalla legge di Bilancio, non prende in considerazione il numero degli alunni per classe», spiega Ivana Barbacci, segretaria generale della Cisl Scuola: «Visti i tassi di denatalità, si prevede che gli studenti diminuiranno di più di un milione nei prossimi dieci anni. Così il governo ha pensato di riequilibrare la rete scolastica dando dei parametri che superano l’attuale dimensione degli istituti. La nuova media sarà di 900 studenti, da organizzare su base regionale: significa che le scuole nelle aree interne potranno essere meno numerose, se quelle in città accoglieranno più studenti. Ma non sarà facile: in molte Regioni il numero degli alunni per scuola è variegato e distante dai nuovi parametri. Serve un piano che, però, nelle aree in cui le scuole sono più fragili, più piccole, porterà comunque alla perdita di autonomia di alcuni istituti: si calcola di circa 700. A rischiare il posto sono sia il personale dei servizi generali e amministrativi sia i dirigenti scolastici che si troveranno a gestire più plessi contemporaneamente». Con difficoltà ancora più grandi se non si punterà a diminuire il numero degli alunni che forma ogni classe, stabilito dal dpr 81 del 2009. Al fine di migliorare la qualità della didattica, la vivibilità dello spazio, la relazione tra docente e alunno. Perché la scuola è luogo di formazione e d’incontro, non solo di lezione.


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