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Uscire dalla scuola a 18 anni? Sì, ma, come

di Maurizio Tiriticco

11/12/2014
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ScuolaOggi

La  provocazione di Luigi Berlinguer va assolutamente raccolta. Che i nostri giovani debbano uscire dal Sistema Educativo di Istruzione a 18 anni di età non è affatto cosa peregrina o avventata. Il fatto è che in alcuni Paesi dell’Unione europea, e non solo, i giovani escono da tempo a 18 anni, perché “mandare a scuola” alunni ormai maggiorenni non è cosa facile né per chi apprende né per chi insegna.

E i motivi sono più che ovvi. Il che non significa che non sia necessario continuare a studiare dopo la maggiore età: si studia all’università fino a conseguire lauree brevi e lauree magistrali, si studia nell’istruzione e formazione professionale, nell’apprendistato e anche negli stessi posti di lavoro. In una società, che ormai tutti chiamiamo della conoscenza, apprendere per tutta la vita e ovunque è una necessità e un dovere. La questione, quindi, non riguarda la fine di un’attività di studio, ma la fine di uno studio fortemente formalizzato qual è quello offerto da una scuola, con i suoi orari, le sue scansioni disciplinari, ecc.

Con la legge 30/2000 – firmata Berlinguer – avviammo un complessivo riordino dei cicli di istruzione, che avrebbe impegnato tempi non brevi per la sua definitiva messa a regime. Si prevedevano: una scuola per l’infanzia dai 3 ai 6 anni di età fortemente generalizzata sull’intero Paese; una scuola di base settennale (6-13 anni di età); un’istruzione secondaria quinquennale (13-18 anni di età); l’obbligo di istruzione avrebbe avuto la durata di 9 anni, dai 6 ai 15 anni di età. Uno dei punti di forza di quella legge era quello di aver definitivamente liquidato pezzi di istruzione ereditati da un lontano passato per riordinarli in un percorso continuo fortemente unitario e progressivo. Con tali misure venivano cancellate la scuola elementare quinquennale e la scuola media triennale e si dava vita a un percorso continuo settennale: e l’obbligo di istruzione veniva esteso ai primi due anni del secondo ciclo.

Si avviava così per la prima volta una continuità, da sempre estranea alla nostra scuola, ma oggi estremamente necessaria. In effetti, lo sviluppo della scolarità nel nostro Paese, dall’Unità nazionale in poi, si è realizzato per “spezzoni” che si sono via via aggiunti nel tempo, per rispondere a esigenze via via emergenti sia dal sociale che dal mondo del lavoro. La situazione era in effetti la seguente: una scuola elementare per fare dei buoni sudditi capaci di leggere, scrivere e far di conto; un liceo funzionale alla formazione della classe dirigente; l’istruzione tecnica per i quadri tecnici intermedi, la formazione professionale e l’avviamento per i lavori essenzialmente manuali. Ma oggi la situazione è assolutamente diversa: non dobbiamo formare dei sudditi obbedienti, bensì dei cittadini responsabili e consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri. Inoltre, la rigida partizione del lavoro non esiste più. Ogni attività lavorativa impegna sempre più mano e cervello: da cui l’adagio “fare con la testa e pensare con le mani”. Però, nonostante questi cambiamenti strutturali, il nostro sistema di istruzione è rimasto, di fatto, quello di sempre, ripartito in gradi e, per quanto riguarda il secondo ciclo, in ordini, le canne d’organo parallele di sempre: il liceo per gli alunni “migliori”, poi, a scalare, i tecnici e i professionali.

Una logica di questo tipo la legge 30/2000 aveva cominciato a metterla fortemente in discussione. Ma ciò che è accaduto dopo è a tutti noto. I governi di centro-destra – tranne la breve parentesi di centro-sinistra con cui siamo riusciti a innalzare l’obbligo di istruzione da otto a dieci anni (dm 139/2007) – hanno rimesso le cose al “loro posto”! E così, grazie alla riforma della Moratti e al riordino della Gelmini, abbiamo ancora i due cicli di sempre, e ben distinti: all’inizio, la scuola dell’infanzia, la primaria, la media, il biennio successivo con cui si conclude – o si dovrebbe concludere l’obbligo – e alla fine il triennio che conduce a un esame che, purtroppo, è un ibrido: non è più di maturità, cioè non ha più “come fine la valutazione globale della personalità del candidato” (legge 119/1969, art. 5), ma ancora non certifica competenze, come dovrebbe in forza della legge di riforma 425/2007, art. 6. Di fatto, sono quelle competenze che il mondo del lavoro richiede, chiede in primo luogo ai giovani, e che in altre scuole dell’Unione europea sono debitamente certificate. Il Parlamento europeo e il Consiglio europeo fin dal 2008 hanno raccomandato a tutti i sistemi, sia di istruzione che di formazione professionale, l’European Qualifications Framework, un quadro con cui sono indicati e definiti otto livelli di uscita dai diversi gradi, dal più basso al più alto, a cui tutti i Paesi membri devono adeguarsi. Ma il nostro governo ha recepito solo nel 2012, tale Raccomandazione e il recepimento ha a tutt’oggi un carattere, di fatto, solo formale.

Il nostro sistema di istruzione è ancora ripiegato su se stesso, chiuso sui propri rigidi passaggi da un grado a un altro e sulle tre canne d’organo di sempre del secondo ciclo. Ne consegue che il solo pensare di anticipare di un anno l’uscita dal sistema di istruzione crea seri problemi, se non si ha il coraggio di mettere in discussione la stessa partizione dei gradi e degli ordini. Giustamente osserva Berlinguer: “E’ necessario rendere congruente l’impianto culturale con gli ordinamenti, oggi separati in tre diversi segmenti che costituiscono una delle principali cause della dispersione scolastica che inizia sin dal primo ciclo. Ed è qui che va accorciato di un anno e non nel secondo ciclo, in modo da renderlo unitario con il percorso di apprendimento dell’alunno”.

Tagliare semplicemente l’ultimo anno ma lasciare indenni gli attuali contenuti e obiettivi di studio – sperimentazioni in tal senso sono in atto, ma l’andamento non sembra offrire risultati e indicazioni esaltanti – è pericoloso. Il problema non è tagliare in alto, ma riordinare in basso. E’ l’intero percorso dai 6 ai 14 anni che va rivisitato! Anzi, dai 6 ai 16, quando si conclude l’obbligo di istruzione (non il diritto/dovere che, com’è noto, si conclude solo se lo studente ha conseguito almeno la qualifica professionale triennale). Possibile che non si sia capaci di dar vita a un curriculum di istruzione continuo verticale e progressivo della durata di dieci anni? Possibile che non si sia capaci di ricucire lo spezzatino di sempre e di oggi, 6-11, 11-14, 14-16? Cioè scuola primaria, scuola media, biennio? Possibile che non si sia capaci di rileggere che cosa accade nel primo segmento della scuola per l’infanzia? So benissimo che è un gioiello prezioso, ma è anche vero che gli alunni anticipitari sono in continuo aumento, e che la stessa infanzia non è immune dai cambiamenti che attraversano le nostre giovani generazioni. In un mondo in cui si impara a scrivere prima con la tastiera e poi con la penna, certi interrogativi ce li dobbiamo porre. Anche per le ricadute che hanno sugli apprendimenti iniziali e propedeutici a saperi sempre più complessi.

Sono discorsi complessi e non facili a condurli e a concluderli. Ma dobbiamo cominciare a farli. La difesa in assoluto dei gioielli di famiglia rischia, a lungo andare, di aprire le porte della cantina per conservarli, più che rivedere, invece, tutti i piani dell’edificio. Anche perché ci sono gli ascensori che ci aiutano a salire senza che ci accorga della fatica che si compie quando, piano dopo piano, facciamo le scale… se vogliamo veramente che la scuola sia anche un ascensore sociale


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