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Unità: «Una vita contro l’emarginazione»

Albino Bernardini, maestro e scrittore. Una vita sui banchi di scuola, da Lula, il paesino nel cuore della Barbagia, alla periferia di Roma del celebre “Un anno a Pietralata”. A 92 anni l’esordio come «romanziere puro». «

31/12/2009
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l'Unità

MAristella Iervasi

Albino Bernardini, maestro e scrittore. Una vita sui banchi di scuola, da Lula, il paesino nel cuore della Barbagia, alla periferia di Roma del celebre “Un anno a Pietralata”. A 92 anni l’esordio come «romanziere puro». «Eppure gli volevo bene» (Casa editrice Kimerik, 12 euro) è la storia di Salvatore, un ragazzo di borgata ma anche quella di un libro dimenticato.
Suo figlio racconta nella prefazione che il romanzo era stato scritto già 30 anni fa, ma poi abbandonato. Ci racconta questa storia nella storia?
«Innanzi tutto c’è da dire che questo è il primo romanzo che scrivo e l’ho scritto quasi di getto. Pagina dopo pagina la storia prendeva corpo quasi spontaneamente. Poi, ad un certo punto, quando sono arrivato ad un passo dal finale, mi sono bloccato perché non riuscivo a trovarne uno che mi soddisfacesse. Quindi ho deciso di “parcheggiarlo” in attesa della giusta ispirazione. Nel frattempo però la mia attenzione è stata attirata da altri interessi culturali che mi hanno assorbito così tanto da farmi quasi dimenticare il manoscritto, fino al giorno in cui mio figlio Francesco lo ha casualmente tirato fuori dalla libreria del mio studio».
Da cosa nasce questo suo interesse così forte per la borgata?
«Il mio interesse per la borgata nasce nel momento in cui mi sono trasferito dalla Sardegna a Roma, in particolare a Pietralata, esattamente il venti settembre del 1960. Lì ho trovato un mondo completamente diverso, soprattutto a livello sociale. I miei alunni erano tutti figli di genitori provenienti dal Meridione con evidenti problemi di natura economica e di integrazione. In effetti vivevano quasi tutti nelle baracche che venivano aggregandosi al quartiere. Ovviamente questi bambini, alcuni addirittura pluri-ripetenti, erano considerati dal personale docente, preside in primis, degli elementi scomodi, da “scaricare” al più presto. Non a caso erano stati singolarmente prelevati dalle varie classi e accorpati tutti assieme in una cosiddetta classe “differenziale”».
Quanto c’è in questa descrizione di autobiografico?
«Io che ho sempre preso le parti dei più deboli, mi sono subito affezionato a loro. Certamente erano dei bambini irrequieti e a volte persino violenti, ma per me non erano altro che vittime innocenti della società e dell’ambiente in cui vivevano. Proprio questo mi ha spinto a non abbandonarli a se stessi, come aveva fatto la gran parte dei miei colleghi, ma a cercare con tutte le mie forze di renderli protagonisti del loro presente e possibilmente del loro futuro, affinché diventassero a pieno titolo cittadini del mondo».
Quindi è un romanzo autobiografico?
«Questo libro non è dichiaratamente autobiografico, anzi è frutto della mia fantasia che però, come tutti gli altri libri che ho scritto, uno per tutti “Le avventure di Grodde” (volpe in lingua sarda) si rifà alla realtà che conosco e vivo quotidianamente. Tanto è vero che la storia di Salvatore ha inizio in una borgata nei pressi di Roma ma si conclude ad Orgosolo in Sardegna. Se vogliamo il suo è stato un percorso inverso al mio».
Dai piccoli paesi isolati della Sardegna alle borgate della capitale: c'è qualcosa che accomuna le sue esperienze di vita e di lavoro?
«Direi che la seconda esperienza in ordine di tempo, ovvero quella che ho vissuto a Pietralata costituisce uno sviluppo ed un arricchimento della precedente esperienza sarda. Infatti, trovandomi di fronte ad un mondo nuovo, sono stato costretto a sperimentare e a tentare nuove strade, fortunatamente sempre assistito e stimolato dai vari amici del MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) i quali portavano le loro personali esperienze vissute in varie parti d’Italia. Certamente quello sardo e quello romano, erano due mondi molto diversi l’uno dall’altro. In particolare i bambini sardi di quel tempo erano molto più tranquilli, ubbidienti e rispettosi dei “duri” che ho trovato nella borgata romana. Per quanto mi riguarda ciò che accomuna le due esperienze è senz’altro l’impegno sociale che ho sempre messo al primo posto sia nella scuola che nella vita».


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