Unità-Sviluppo e ricerca, siamo all'ultimo tram
Pietro Greco L'anno che è appena iniziato ci offre, forse, l'ultima occasione per salire al volo sul tram dell'economia della conoscenza e, quindi, dello sviluppo economico. O nei prossimi...
Pietro Greco
L'anno che è appena iniziato ci offre, forse, l'ultima occasione per salire al volo sul tram dell'economia della conoscenza e, quindi, dello sviluppo economico. O nei prossimi dodici mesi riusciamo a dare una svolta al nostro sistema produttivo o diventeremo definitivamente una colonia tecnologica per le aziende hi-tech a elevata competitività degli altri paesi europei, del Nord America, del Giappone e soprattutto di Cindia, l'enorme regione a economia emergente dell'Asia continentale. Per intenderci, già oggi con 180 miliardi di dollari di vendite hi-tech l'anno, la Cina è il massimo esportatore di merci ad alto contenuto di conoscenza al mondo. E già oggi l'India laurea in materie scientifiche, ovvero nelle materie di chi quei beni li sa progettare e produrre, più giovani dell'intera Unione Europea.
Negli ultimi anni, con un'accelerazione progressiva, abbiamo avuto modo di constatare che il modello italiano dello "sviluppo senza ricerca" non regge più. In meno di un decennio la competitività dell'economia italiana ha subito un collasso. Negli ultimi cinque anni il governo Berlusconi non ha voluto rendersene conto e, in ogni caso, non ha saputo imprimere quella svolta necessaria che pretende sia modificata, in breve tempo, la specializzazione produttiva del sistema economico italiano. Non più solo produzioni di beni a basso contenuto tecnologico - che non reggono la sfida del mercato con paesi dove il costo del lavoro è spesso minore di un ordine di grandezza - ma soprattutto produzioni il cui valore è determinato non dal costo del lavoro ma dal contenuto di conoscenza.
Alcuni indicatori noti, ma che vale la pena ripetere, ci dicono quanto sia grave il ritardo da colmare per salire sul tram dell'economia della conoscenza.
La quota italiana nel mercato mondiale dell'alta tecnologia si è pressocché dimezzata negli ultimi quindici anni, passando dal 3,7% al 2,1%. Questo è accaduto, è vero, mentre il peso complessivo dell'economia italiana nel mondo andava diminuendo. Ma il declino dell'hi-tech italiano è stato molto più veloce di quello di altri settori. Anzi, è stato il più veloce. Segno che se il paese è complessivamente in forte affanno, nel campo dell'economia fondata sulla conoscenza è in crisi aperta. Tanto più che negli ultimi anni la competitività del resto d'Europa nel settore delle alte tecnologie è aumentata. Siamo quasi gli unici, di fatto, a perdere terreno. E perdiamo terreno non solo rispetto agli altri paesi industrializzati, ma anche rispetto ai paesi a economia emergente. Ciò spiega perché in tutte le classifiche sulla competitività l'Italia continua a perdere posti.
L'Unione Europa stima che un traguardo imprescindibile per entrare nell'economia fondata sulla conoscenza sia quella di investire almeno il 3,0% della ricchezza nazionale in ricerca scientifica e tecnologica. I paesi dell'Unione investono, in media, circa il 2,0% contro il 2,8% degli Stati Uniti e il 3,2% del Giappone. L'Italia investe la metà della media europea. Con questi numeri è difficile andare lontano. Ma se il settore pubblico investe in ricerca il 30% in meno rispetto alla media europea, l'industria privata italiana investe fino all'80% in meno rispetto alle industrie di altri paesi. Solo 16 giovani italiani su cento di età compresa tra i 25 e i 34 anni hanno una laurea, contro il 48% degli inglesi e il 40% dei francesi. In Italia ci sono solo 2,8 ricercatori per ogni 1.000 lavoratori, contro i 5,4 in media dell'Unione europea, i 9 degli Usa, i 10 del Giappone e della Svezia, i 16 della Finlandia.
Non è semplice né indolore cambiare la specializzazione produttiva di un paese. Men che meno lo è con la base strutturale dell'Italia. Occorrerà saper mettere in campo molti ingredienti e integrarli sapientemente. C'è bisogno in primo luogo di un governo con idee chiare, capace di individuare i settori strategici di sviluppo, di interpretare l'interesse nazionale e di parlare chiaro al paese. Occorre un'alleanza strategica tra le forze produttive (imprese e lavoratori) e l'unico gruppo sociale che oggi nel nostro paese è, bene o male, già proiettato nella società della conoscenza ed è abituato a muoversi in una dimensione internazionale: quella dei ricercatori pubblici. Solo insieme, accorciandosi le maniche e rendendosi disponibili a un lavoro che sarà anche di sacrificio, ricercatori pubblici, lavoratori e imprese potranno fornire al paese gli elementi strutturali per entrare nell'economia della conoscenza. Occorrono nuovi investimenti e una nuova cultura ("più soli e meno regole", sostiene giustamente Walter Tocci, il responsabile dei Ds per la ricerca) per bloccare e poi invertire il percorso di declino fatto imboccare all'apparato di ricerca pubblica dalle controriforme Moratti. Occorre individuare i catalizzatori che consentano al sistema produttivo italiano di modificare la sua specializzazione e dimostrare di credere davvero nella ricerca nell'unico modo possibile: investendo in uomini e risorse economiche.