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Storia di Patrizia, precaria del clima

Ricercatrice, 45 anni, assegnista di ricerca dell'Enea. Lavora a progetti di biorisanamento di aree inquinate. Ma dopo 20 anni di contratti a termine è ancora in attesa di una stabilizzazione per la quale avrebbe tutti i requisiti

25/03/2022
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Collettiva.it

Stefano Iucci

Ricercatrice, 45 anni. Quasi metà dei quali passati tra contratti e contrattini: nessuna stabilità, nessuna certezza. Se non quella di una passione infinita per il suo campo: la microbiologia, l’ambiente, l’economia circolare, quella attenta allo spreco, all’inquinamento, alla qualità dell’ambiente e del lavoro. Ed è un paradosso – purtroppo non una novità in Italia – che sia proprio il suo, di lavoro, a mancare di una delle condizioni che ne determinano appunto la qualità: la stabilità, la continuità, i diritti. Patrizia Paganin è assegnista di ricerca in Enea e ha accettato di raccontare la sua storia a Collettiva nel giorno dello sciopero globale del clima proclamato da Fridays for future e al quale ha aderito anche la Flc Cgil.

Paganin, che giocando un po’ con le parole potremmo definire una “precaria dell’ambiente” ci mostra senza problemi il suo curriculum: dieci pagine fitte di esperienze, contratti, progetti di ricerca. Un’evidenza anche visiva del percorso pieno di ostacoli a cui troppi ricercatori nel nostro paese sono costretti. “Le difficoltà – ci dice – sono quelle che puoi immaginare. Prima su tutte quella di dover, ogni volta, abbandonare un progetto a cui stavi lavorando con passione. Vedi, nel mio lavoro ci si innamora di quello che si fa, io con i ‘miei’ batteri praticamente ci parlo”. Oltre, naturalmente, a tutto ciò che sappiamo, i periodi di vuoto tra un contratto e l’altro, la mancanza di ferie, le malattie non pagate e il timore, ogni volta, di non riuscire a trovare un contratto e dunque una retribuzione. 

Paganin lavora nel gruppo “Microbiologia” del Laboratorio di osservazioni e misure per l’ambiente e il clima di Enea. Il laboratorio lavora, tra le altre cose, a progetti per il biorisanamento delle aree inquinate (ad esempio miniere, concerie, aree industriali dismesse) utilizzando batteri che provengono dalle stesse aree. In estrema sintesi, spiega, “isoliamo microrganismi che si nutrono di quelle sostanze inquinanti, li facciamo riprodurre e li reimmettiamo nello stesso ambiente dove, con il loro metabolismo, favoriscono il recupero dell’area contaminata”. 

Tra i tanti progetti in corso, c’è quello in collaborazione con l’università di Cagliari per il risanamento delle acque del Rio Irvi, ad Arbus, in Sardegna, in una zona di vecchie miniere. Un’acqua che fa impressione, arancione, fortemente contaminata da ferro e zinco. “Ho isolato i batteri nei sedimenti dei fiumi che ricevono le acque di drenaggio delle miniere della zona. Questi batteri, essendo solfato-riduttori, ‘precipitano’ i metalli pesanti che, sedimentadosi, si possono poi rimuovere più facilmente”, racconta la ricercatrice dell’Enea.

La microbiologia ha tante possibili applicazioni, per esempio anche nel campo dei beni culturali. Ancora Paganin: “Utilizziamo i batteri per pulire i monumenti, per liberarli da patine che i normali prodotti chimici non riescono a rimuovere. Un classico esempio di economia circolare: sostituiamo sostanze tossiche per gli operatori con prodotti rinnovabili che non hanno impatto sulla loro salute”. 

E torniamo così al lavoro, a una condizione che allinea due situazioni paradossali: da un lato innovazione, ambiente, salute e sicurezza, dall’altro l’assurda situazione di chi lavora in questi campi ad alto valore aggiunto sociale e che però non ha la garanzia minima: quelle della continuità della propria occupazione. “Dopo 20 anni di lavoro sono ancora assegnista di ricerca – osserva Paganin –. I motivi sono tanti. Anche un po’ di sfortuna: sono laureata in scienze ambientali, però ho sempre lavorato in campo biologico. Solo che quando uscivano i concorsi non potevo accedervi – anche avendo maturato competenze adeguate – perché la mia laurea non era tra quelle richieste”. 

A un certo punto, aggiunge, “ho pensato di prendere una seconda laurea in  biologia, ma non posso farlo, perché incompatibile con l'assegno”. E qui la sfortuna c’entra poco, perché entriamo nel terreno dei mille laccioli poco spiegabili: l’assegno, infatti, è considerato un contratto di formazione e dunque incompatibile con un nuovo corso di laurea. “Mi viene un po’ da ridere – commenta amaramente Paganin –. Dopo 20 anni sarei ancora in formazione? Dopo aver partecipato a tanti progetti e ricerche e tanti contratti che, essendomi stati rinnovati, testimoniano della mia competenza e capacità?”.

Una sequela di contratti che in effetti è emblematica: 5 anni e mezzo di assegni di ricerca con Enea, poi vari co.co.co e co.co.pro (spesso con enti che svolgevano progetti con Enea), periodi di vuoto e anche tante supplenze a scuola. Infine, dal 2020, un altro assegno di ricerca con Enea. In mezzo, l’impossibilità di essere inclusa in processi di stabilizzazione per regole e condizioni legate a tipologie contrattuali o ai periodi di lavori svolti, spesso vere e proprie trappole del tutto sganciate dalla realtà di ciò che effettivamente si fa.

"Ovviamente non mi rassegno, la passione per il mio lavoro è tanta e ci ho investito troppo per lasciar perdere. Ora poi si è finalmente aperta una possibilità: in Enea sono usciti concorsi per i quali ho i requisiti giusti e a cui ovviamente parteciperò”, conclude la biologa. L’augurio è che sia la volta buona: perché questi requisiti, evidentemente, Paganin li possiede. Così come li possiedono tanti ricercatori costretti dagli scarsi investimenti a rimanere – in un paese che aumenta senza troppi problemi la spesa per le armi – in un limbo di precarietà. Forse un giorno si capirà che clima, sostenibilità ambientale e qualità del lavoro sono facce della stessa medaglia: quella di uno sviluppo che sia socialmente adeguato.


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