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Repubblica-Non solo proteste ma progetti per le università italiane

Non solo proteste ma progetti per le università italiane ALDO SCHIAVONE Da qualche tempo ?...

28/12/2005
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la Repubblica

Non solo proteste ma progetti per le università italiane
ALDO SCHIAVONE


Da qualche tempo è al lavoro un "tavolo programmatico" dell'Unione sull'Università. E' una buona notizia: e ci aspettiamo novità sostanziali, perché non è più il momento della protesta, ma della costruzione e del progetto.

Dove bisogna innanzitutto intervenire, è nella "filosofia" che ha guidato sinora l'approccio "di sinistra" a questi temi. Qui è necessaria un'autentica svolta.
Troppo a lungo abbiamo permesso che una cattiva retorica egualitarista si sovrapponesse e si sostituisse a una corretta idea di democrazia nell'apprendimento, con risultati di autentica degenerazione. Abbiamo trasformato il perseguimento dell'eguaglianza nei processi formativi da essenziale presupposto nell'accesso ai saperi e alle conoscenze - irrinunciabile, ma solo in quanto punto di partenza in grado di assicurare pari opportunità per tutti i cittadini - in un risultato obbligato di ogni percorso educativo, con l'esito di una disastrosa rincorsa verso il basso, che è sotto gli occhi di tutti. Un livellamento che si sta rivelando un'autentica trappola, in cui cadono per primi proprio coloro che esso dovrebbe proteggere - i giovani socialmente più deboli - illusi da una parità fittizia e senza conseguenze, rispetto a chi ha altre e diverse possibilità (private) di studio e di crescita intellettuale.
Bisogna avere finalmente il coraggio di dire quello che già tutti sanno e ipocritamente nascondono: le Università - e le Facoltà, e i Dipartimenti - non sono tutti eguali; e non lo sono neppure i docenti; e - cosa più importante - tantomeno lo sono gli studenti, per i quali la valorizzazione delle differenze è la sola possibilità di salvezza. Le diversità, se non riconosciute, poiché non sono eliminabili per decreto, non si cancellano, ma tendono piuttosto a esprimersi "in nero" (per così dire), cioè per vie traverse al di fuori delle istituzioni che si ostinano a non ammetterle, con l'effetto di annientarne la credibilità e l'efficienza. Il punto non è abolire la selezione, per paura che diventi una discriminazione classista: questo vorrebbe dire gettare il bambino con l'acqua sporca. Bensì riuscire a fondare i meccanismi selettivi sul merito e non sulla classe.
Ma come fare?
Le Università di una volta erano votate solo alla riproduzione delle élite: in Italia è stato così sino a tutti gli anni sessanta. Le Università di oggi formano innanzitutto intellettuali-massa, di cui le società ad alta intensità tecnologica hanno un bisogno sempre maggiore. Ritenere che queste due funzioni siano la stessa cosa, e vadano assolte con metodiche e strutture indistinte è pura demagogia. Distinguerle, non deve significare tuttavia dar vita a due mondi reciprocamente impermeabili; né soprattutto riservare la formazione delle classi dirigenti a poche oasi inaccessibili, isolate dal resto del contesto universitario. Significa piuttosto disegnare profili differenziati ma integrati all'interno di un unico sistema, il cui carattere di servizio pubblico non deve essere messo in discussione.
L'introduzione del doppio livello di laurea - una di base e un'altra avanzata - introdotto con la riforma Berlinguer-Zecchino, e sostanzialmente consolidato nel successivo quinquennio, è un passo importante nella giusta direzione; come lo è l'ampliamento di una rete italiana per l'alta formazione, dottorale e postdottorale, non contrapposta all'organizzazione degli Atenei, ma nata e gestita al suo interno: per unificare, integrare, razionalizzare esperienze importanti, sviluppatesi più o meno di recente. Su questa strada, c'è bisogno ora di uno slancio nuovo. Esso si può determinare a partire da alcune condizioni, che vanno realizzate.
Primo. Finanziare la competitività. Destinare tutte le risorse aggiuntive esclusivamente a un sistema capillare di incentivi che premi la qualità e la produttività (delle Università, dei singoli docenti, degli studenti più capaci). Cambiare insomma non solo la quantità della spesa, ma la sua composizione.
Secondo. Redistribuire i costi. Porsi cioè il problema di un riequilibrio, sia pure dolce e tendenziale, del prelievo per l'università fra utenti e contribuenti (oggi drammaticamente sbilanciato dal lato dei contribuenti), anche in rapporto a un aumento nella qualità dei servizi offerti da ciascun Ateneo (mense, laboratori, collegi, biblioteche, aule, informatica).
Terzo. Sviluppare l'autonomia. Avviare un drastico processo di delegificazione, che consenta sempre di più a ciascun Ateneo di darsi le proprie regole e di seguire la propria vocazione, nel rapporto con il territorio e con i soggetti sociali che lo determinano, nel rispetto di un quadro unitario rappresentato da pochi principi guida inderogabili.
Quarto. Accentuare la concorrenza. Vale a dire incrementare la specializzazione e la diversificazione fra gli Atenei, collegandole a un rigoroso sistema di valutazione dei risultati, in grado di innescare spirali virtuose nei comportamenti individuali e collettivi.
Quinto. Favorire la trasparenza. Indurre cioè gli Atenei, sia attraverso principi normativi, sia attraverso opportuni incentivi, a darsi assetti di governo non ridondanti, che congiungano visibilità democratica e potere di decisione.
Un simile ordine di idee pone all'ordine del giorno una questione per la quale i tempi sono ormai maturi: quella del superamento progressivo del cosiddetto "valore legale del titolo di studio": un vecchio tabù con il quale è arrivato il momento di fare conti non ideologici. E' sbagliato sostenere che esso sia una conseguenza inevitabile del carattere pubblico del sistema universitario: è piuttosto un ostacolo alla sua modernizzazione, e come tale va affrontato. Troppe volte, in questi anni, la bandiera della statualità e della democrazia è stata agitata solo per mascherare opachi interessi corporativi alla conservazione: governare da sinistra significa anche sapersi misurare con essi.


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