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Mi fa paura la scuola digitalizzata

Paola Mastrocola

08/06/2020
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La Stampa

Non so come siano riusciti gli insegnanti, in questi mesi, a continuare a fare gli insegnanti. Chiusi nelle loro case, per ore e ore davanti a un video, hanno proseguito a fare lezione, svolgere i programmi, assegnare compiti, interrogare. Un esempio di resistenza e passione davvero ammirevole. Alcuni di loro (pochi? tanti?) hanno gradito le nuove modalità didattiche, e hanno preso tutto ciò come un esercizio preliminare di quella innovazione digitale che da sempre auspicano. Per molti è stata invece una costrizione dolorosa, uno snaturamento del proprio lavoro, che hanno accettato solo in nome dell'emergenza, ma che, credo, mai avrebbero desiderato e men che meno scelto. Comunque, la scuola non poteva fermarsi. E non si è fermata.
Per quel che mi riguarda, se fossi oggi ancora in cattedra, soffrirei moltissimo. Dalla mia lontananza (è da cinque anni che non insegno più), soffro comunque. Non riesco a immaginare che si continui in questo modo. E ho molta paura che si vorrà continuare in questo modo, cavalcando il coronavirus, l'insperato assist che involontariamente ci ha fornito. Temo, cioè, che le sirene dell'innovazione didattica, che da anni esaltano la rivoluzione digitale prossima ventura, possano ora dispiegare appieno il loro canto seduttivo: temo che la scuola digitalizzata, distanziata e remota, possa trionfare definitivamente. Che sia una grave emergenza sanitaria ad aiutare tale processo, era imprevedibile ed è sconcertante, ma diciamo che è andata proprio così: il coronavirus è arrivato là dove nemmeno i più agguerriti pedagogisti erano arrivati. Ora il mito della lezione a distanza è diventato, per tre mesi, realtà. E in futuro potrebbe consolidare la vittoria.
La cosa buffa – vorrei dire tragicomica – è che ora da molte parti si leva un coro di angosciate proteste, di indignazione venata di un (indicibile) malinconico rimpianto: rivogliamo la scuola com'era, vogliamo che si torni a far lezione in classe!
Ma come? Abbiamo passato gli ultimi vent'anni a demolire la lezione in classe, l'abbiamo definita (ridicolmente) "frontale", abbiamo demonizzato gli insegnanti che ancora osavano farla, bollandoli come passatisti reazionari, e adesso? Meraviglie del coronavirus! È proprio vero che, solo quando perdiamo una cosa, riusciamo ad apprezzarla.
Ma non importa da dove soffia il vento, l'importante è che soffi. Dunque benissimo, combatteremo per la lezione dal vivo (posso sperare che ora la chiameremo "dal vivo" anziché "frontale"?). Non potrei essere più d'accordo. Se la scuola ha ancora un senso, nonostante le tempeste che l'hanno miseramente travolta (e stravolta), quel senso risiede proprio nel far lezione.
La lezione in classe è il cuore dell'insegnamento. Lo penso da sempre, e per una ragione molto semplice: perché facendo lezione l'insegnante passa, in un sol colpo, sia le conoscenze culturali che deve passare, sia un insegnamento più sottile e misterioso, velato e segreto, impalpabile, spesso inconsapevole, che però forse è il vero e più profondo insegnamento.
Facciamo un esempio. L'insegnante entra in classe e spiega una poesia di Pascoli; ma mentre parla di Pascoli, dice anche altro, con i gesti, con il tono di voce, con lo sguardo, col fatto che magari spiegando un verso arrossisce, o si ferma, o si commuove, o scoppia a ridere: ed è quella commozione o allegria estemporanea che "insegna" ai ragazzi davvero che cos'è la poesia del Pascoli! Non solo. Può succedere che a un certo punto l'insegnante faccia una digressione, che lasci il discorso principale e s'addentri in stradine che non c'entrano più con Pascoli e che lo portano a parlare della vita, della morte, dell'amore, o anche di politica, economia, attualità, filosofia, botanica e chissà che altro. E magari è proprio lì, in tutto quell'altro che non stava nei programmi, che l'allievo troverà le cose più preziose per sé.
È infinito lo spazio che si apre durante una lezione dal vivo, perché una lezione dal vivo è, per definizione, spazio. Spazio infinito e libertà. Nessuno ha idea dell'ampiezza di libertà che si apre in una classe quando c'è lezione, nella mente di chi parla e nella mente di chi ascolta. E tutto ciò è assolutamente imprevedibile e casuale. È puro accadimento. Teatro. Improvvisazione. È un'avventura, com'era per i cavalieri antichi. Per questo ho sempre ritenuto sbagliato (irresponsabile, ottuso e anche crudele) abolire la lezione "frontale": perché sarebbe come abolire la libertà, e rinunciare a ciò che la vita ti mette davanti. Reprimere l'immaginazione, levare fiducia al potere misterioso della parola. Tagliare il filo a un aquilone.
Ora, non sappiamo se potremo tornare a scuola, a settembre. Non sappiamo se il lavoro diventerà perlopiù smart working e pochi torneranno in ufficio, se per gli acquisti ci affideremo all'e-commerce, se usciremo e viaggeremo meno, se dovremo limitare al massimo la nostra presenza in luoghi chiusi e affollati. In verità non sappiamo niente.
Comunque non mi pare che la soluzione possa essere la scuola a distanza. E nemmeno la scuola col plexiglas, ognuno barricato dentro la sua bolla più o meno trasparente.
Non la risolveremo facilmente, né in tempi brevi. Credo però che dovremmo tutti metterci a ripensare la scuola da zero, non come cosa a sé, ma considerando gli sconvolgimenti sociali ed economici che le stanno intorno e sono sotto i nostri occhi.
Il coronavirus è stato un potente detonatore. Uno scoperchiatore, direi. Ha fatto scoppiare i bubboni, ha scoperchiato le falle del nostro vivere. Per esempio ora ci fa capire che cos'è per noi la scuola: una necessità educativa e sociale, prima ancora che culturale. Dove lasceremo i nostri figli, e a chi? Io aggiungerei una domanda: come faremo a non perdere la ricchezza ineguagliabile di una lezione dal vivo?
Il coronavirus ci sta invitando violentemente a ri-modellarci, a trovare altri modi di vivere: a diventare davvero, per la prima volta, nuovi.
Se mancheremo il suo invito, se faremo come nulla fosse e ci abbarbicheremo alle nostre care abitudini, se ci intestardiremo a far continuare le cose il più possibile uguali identiche a com'erano; se non ci faremo venire idee, scatenando l'immaginazione; se non sfrutteremo questa occasione unica di inventare il mondo daccapo, be', virus o non virus, avremo perso una partita decisiva.


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