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Manifesto: Se la camorra si combatte a scuola

Il progetto coinvolge un centinaio tra elementari, medie e superiori di tutta la Campania. Teatro e cucina per sottrarre i giovani alla malavita organizzata. Con l'aiuto della Chiesa

23/12/2007
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il manifesto

Viaggio a Casal di Principe, nel casertano. Dove gli istituti sono un luogo di incontro per le associazioni

Simone Verde
Casal di Principe (Caserta)
In una regione abbandonata dallo stato, un'iniziativa positiva. L'idea, maturata nell'assessorato alla pubblica istruzione della Campania, è tanto semplice quanto intelligente: utilizzare la scuola pubblica, presente capillarmente su tutto il territorio, come luogo di incontro in cui sperimentare una società diversa, fondata sul rispetto della legge. Nel 2006 ne è scaturito il programma Scuole aperte, con cui i locali di oltre cento istituti sparsi nelle cinque province vengono messi a disposizione di attività pomeridiane e serali: medie, elementari, licei ora aperti a tutti. Un programma cui aderiscono numerose associazioni, destinate a crescere di anno in anno.
Il viaggio nell'iniziativa comincia da Casal di Principe. Comune a più alta attività mafiosa d'Europa e terra d'infanzia di Roberto Saviano. In molti ricorderanno il passaggio che l'autore di Gomorra fece qui a settembre in compagnia del presidente della Camera Fausto Bertinotti e che vide la piazza del paese insolitamente piena per un incontro pubblico contro la camorra. L'Istituto Tecnico Industriale Guido Carli si trova in periferia. Tra case abusive sorte come funghi in una campagna urbanizzata ovunque. All'interno del grande recinto che circonda l'edificio scolastico e le palestre, il terreno è pulitissimo. Primo contrasto tra un microcosmo gestito secondo legge e un mondo circostante ricoperto d'immondizia. Qualche segno dell'esterno, tuttavia, penetra anche qui. Per via del fumo di un grande rogo di pneumatici e materiali tossici portato dal vento.
«È il profumo tipico della regione», ironizza un giovane animatore della Canonica, compagnia teatrale nota per le sue rappresentazioni di testi scomodi in quartieri difficili, che organizzerà i propri laboratori all'interno della grande scuola. «Noi - spiega Gaetano Pignata - facciamo teatro napoletano, per affezionare i cittadini alla cultura del territorio e invitarli a rispettarlo». Incontri, spiega, che sono anche un modo per condividere interessi laddove non esistono occasioni di aggregazione alternative al teppismo dei clan. Strategia condivisa anche dai ragazzi di Nuova cucina organizzata, ong il cui nome fa il verso alla Nuova camorra organizzata del boss Raffaele Cutolo e che, grazie all'iniziativa della Regione, ha già avviato al lavoro alcuni ragazzi altrimenti destinati alla manovalanza della camorra.
A dare una mano è anche la Chiesa. Attraverso il sostegno pubblico all'iniziativa, da queste parti necessario per evitare ritorsioni o il boicottaggio della gente, ma anche con laboratori di vario genere ospitati nelle scuole. «Abbiamo una grande responsabilità - afferma don Franco Picone - poiché siamo l'unica istituzione rispettata da tutti. Perciò, non possiamo astenerci da progetti come questo». Arrivato 14 anni fa, don Picone ereditò un posto difficile. Quello di don Giuseppe Diana trucidato per le sue battaglie contro la camorra. «Il messaggio di quell'omicidio - spiega Picone - era chiaro. Fu ucciso in chiesa, un modo per dirgli "devi restare qui. Devi occuparti delle anime e non di quanto accade fuori"». Il messaggio, però, non venne raccolto. E anche dopo l'assassinio di Diana, la forania di Casal di Principe ha continuato, forse con più prudenza, a battersi dalla parte della legge. «Agli insegnanti di religione - racconta il parroco - dico sempre che il loro compito è di diffondere il rispetto della legalità».
Tra gli orrori prodotti dalla camorra c'è anche lo sfruttamento di decine di migliaia di immigrati mossi dalla speranza di una vita migliore e che in queste terre dimenticate dallo stato diventano preda di facile sfruttamento. Immigrati che, quando sono donne, vengono subito avviate al marciapiede. Anche in questo caso l'autorità pubblica è latitante e le rare organizzazioni attive sul territorio sono per lo più religiose. In primo luogo la Caritas che si occupa di vestire, alloggiare e iniziare alla lingua italiana moltissime persone grazie a laboratori e corsi che avvengono spesso nelle scuole. «Si tratta di un'iniziativa importante per noi», racconta Roger Adjicoudé, responsabile immigrati della Caritas di Aversa. «Non soltanto ci ha permesso di allargare il bacino di utenza dei nostri corsi, ma anche di entrare in contatto con la popolazione locale». Più difficile, invece, il lavoro dei padri comboniani di Castelvolturno, una delle zone più degradate, in cui vivono decine di migliaia di clandestini che nessuna istituzione tenta di integrare. Persone che abitano ruderi di vecchi alberghi in disuso ed edifici degradati sorti su entrambi lati della litoranea, in nome di vecchie aspirazioni turistiche oggi fallite. Nei viottoli e sotto la grande pineta, un via vai di prostitute per lo più nigeriane.
Unico a mobilitarsi a favore di questa gente è padre Giorgio Poletti, che da qualche anno ha aperto un asilo gratuito a disposizione di tutti. Una struttura che accoglie oltre 40 bambini e che è ospitato nei locali di una vecchia casa colonica. «Un asilo - racconta - per poveri bambini, spesso figli di prostitute, e comunque quasi tutti africani che nessuno vuole». L'idea, originariamente, era di farli incontrare con la popolazione. Ma sin da subito i bianchi a iscrivere i propri figli furono ben pochi. «Quest'anno ce ne è uno - spiega il padre comboniano - Per il resto, soltanto i piccoli di un popolo trattato come carne da macello». Dalla camorra, certo. Ma anche da semplici cittadini che partecipano alle violenze e allo stupro continuo di prostitute-schiave, spesso giovanissime. Mentre Poletti racconta la sua storia, sul marciapiede prospiciente l'asilo ne passano alcune, a occhio tra i quindici e i diciotto anni. «La nostra scuola - continua - serve a dare un imprinting a questi bambini. A dargli un futuro diverso dall'emarginazione in cui vivono i loro genitori». I laboratori che Poletti organizzerà nelle scuole aperte della città, perciò, serviranno là dove l'asilo ha fallito: «Integrare bianchi e neri, promuovere un senso di appartenenza comune alla popolazione che abita questo luogo senza identità per ricreare un tessuto sociale e opportunità di lavoro».
Di certo l'iniziativa Scuole aperte è un caso isolato e del tutto insufficiente a risolvere i problemi della regione. Scaturito - come spiegano due coordinatori, Leandro Limoccia e Paolo Monaco - dall'idea di «promuovere legalità in maniera concreta, dando ossigeno e denaro alle associazioni che già agiscono sul territorio». Un caso isolato che però potrebbe servire da esempio. E che fornisce strumenti e autorevolezza a cittadini mobilitati spesso in solitudine ed esposti in prima linea.


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