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Manifesto: Nel nome di Minerva

Umberto Eco L'università italiana ha mille difetti. Ma spesso non sono quelli che vengono superficialmente denunciati quasi all'unisono, da destra e da sinistra.

19/12/2008
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il manifesto

L'università italiana ha mille difetti. Ma spesso non sono quelli che vengono superficialmente denunciati quasi all'unisono, da destra e da sinistra. Andrebbe curata, ma va soprattutto difesa se non altro perchè il tenore delle critiche che si leggono sui giornali fa sospettare che gli autori degli articoli non ce l'abbiano fatta ad arrivare alla laurea
Umberto Eco
L'università italiana è in crisi, e lo era in anticipo su Wall Street. Ma, mentre sulla crisi economica tutti hanno idee chiare perché sanno quanto hanno perduto o quanto gli manca per finire il mese, sulla crisi dell'università vagano idee imprecise. Nulla di eccezionale, visto che si tratta di argomento specializzato, e nulla da eccepire se al Tre Palle un Soldo che si sta giocando sull'università eccellono coloro che fondano il loro potere sulla diffusione della cultura trash, ma paiono rischiose numerose generalizzazioni che vagano in formazione bipartisan, sia da destra che da sinistra.
Se le idee sono confuse, più confusi ancora saranno i suggerimenti per uscire dalla crisi e, se quanto sta avvenendo intorno all'università italiana avvenisse intorno alle crisi bancarie, dovremmo leggere sui giornali ricette su come ovviare ai crolli in borsa organizzando catene di sant'Antonio o affidando la sorveglianza del mercato a Vanna Marchi.
Un esempio tra tutti, la ventata d'indignazione che ha percorso la stampa all'apprendere che all'Istituto Orientale di Napoli esiste un corso di lingua berbera frequentato da un solo studente. Mi pare che poi qualcuno abbia dimostrato che nei dati ministeriali quel numero uno associato a certi corsi voleva solo dire che non c'erano dati a disposizione, ma non è questo il punto: si dimentica che l'università non è solo il luogo della didattica ma anche quello della ricerca, e che se esiste un istituto dedicato allo studio delle civiltà asiatiche e africane, questo istituto deve avere un insegnamento di lingua berbera anche se non avesse nessun studente. Questo vuole dire che nell'università non ci sono sprechi? Ce ne sono moltissimi, specie nella parcellizzazione degli insegnamenti durante il triennio, ma ecco che se non si capisce dove ci sono e si vanno a cercare altrove la crisi non la risolve nessuno.
Scandalo dei professori nepotisti che mettono mogli figli e amanti in cattedra. Voci false? No, notizie vere, ma tutti sanno che questo avviene per certe materie dove il titolo accademico fa lievitare le parcelle nel corso dell'attività extrauniversitaria, mentre è difficile che un professore di filologia bizantina arricchisca i suoi congiunti facendoli ricercatori in un insegnamento dove al di fuori dello stipendio non ci sono prospettive milionarie. E allora? A Napoli impera la camorra ed è una verità sacrosanta, ma questo non induce a dire che tutti i napoletani (e pertanto anche il nostro presidente della Repubblica) sono camorristi.
Si arriva all'università per cooptazione, e questo scandalizza alcuni («si fanno i loro affari tra loro») come se un professore di analisi matematica potesse essere scelto e nominato dal presidente della corte d'appello, dal comando dei carabinieri o eletto dal popolo. Ma cooptare non vuole necessariamente dire procedere per concorsi dove si finge che vinca il migliore. Prima di tutto perché in numerose discipline è difficile dire chi sia il migliore: si pensi che a un concorso di filosofia del linguaggio può presentarsi un filosofo analitico che ha scritto quattro saggi di semantica formale e un ermeneutico che ha scritto due volumi di cinquecento pagine su Gadamer e - posto che entrambi siano bravi nella loro specialità - è difficile fare una classifica.. Non solo, non è detto che una università abbia sempre bisogno del migliore in campo. Faccio un esempio, tenendo d'occhio quel che accade nelle università americane: si supponga che l'università abbia già due geni di fisica teorica, ottimi direttori di ricerca ma scarsamente interessati alla didattica e che abbia urgente bisogno non di un terzo genio ma di un insegnante di buone capacità che voglia dedicarsi corpo e anima all'insegnamento della fisica teorica alle matricole. Ecco che l'università disegnerà un profilo ed elaborerà criteri di selezione che le permettano di scegliere la persona giusta, al prezzo che è disposta a spendere.
Non voglio insistere sulla mia vecchia proposta che vedo ogni tanto ripresa: una commissione nazionale sceglie ogni due o tre anni quegli studiosi che ritiene idonei (non necessariamente i migliori al mondo, ma coloro che potrebbero dignitosamente insegnare quella materia) e dopo i vari atenei scelgono in quella lista secondo le loro esigenze. Qualcuno aveva a suo tempo obiettato che in una lista di idonei basta che alcuni commissari giochino sporco ed entrano anche dei cretini. E' possibile, certo, ma in una lista aperta è impossibile escludere i bravi (come invece avviene in molti concorsi) perché per definire qualcuno come non idoneo un commissario dovrebbe impegnarsi in una pubblica e documentata analisi del suo lavoro mettendone in evidenza le pecche - e accettando che il suo giudizio sia a sua volta giudicato e accettato dalla comunità scientifica. Impresa rischiosa, se proprio non si è mossi da forte e scientifica indignazione.
Naturalmente il fatto che un ateneo possa scegliere dalla lista aperta e mettersi in casa il più cretino è sempre presente. Ma, anche senza auspicare l'abolizione del valore legale del titolo, se si diffonde la fama che quell'ateneo arruola solo parenti dei docenti in cattedra, dovrebbe diminuire l'afflusso di studenti (paganti).
Non volendo ricorrere alla lista aperta degli idonei si ricade nella formula concorsuale la quale è sbagliata per definizione e in ogni caso disadatta a controllare e scoraggiare le operazioni mafiose.
Anzitutto la meccanica concorsuale finge di essere fondata sulla valutazione e sulla possibilità di stabilire una gerarchia in termini di eccellenza. Se questo è possibile per alcune discipline scientifiche e in momenti specifici, si è visto che è pura retorica per le scienze umane. Persino l'abbondanza di citazioni è criterio dubbio: se vale, che so, per la cancerologia, dove chi è bravo dovrebbe aver pubblicato qualcosa in inglese, non vale affatto per uno specializzato (magari bravissimo) sul Tommaseo, che per forza di cose avrà pubblicato solo in italiano e pertanto verrà citato solo dai colleghi italiani e al massimo da qualche italianista straniero. Ogni nuova trovata per avere la formula quasi matematica del merito è aperta a contestazioni. So di un dottorato classificato in modo certamente inferiore alle sue qualità perché emergeva che i suoi dottori di ricerca non avevano messo che pochi testi on line; a nessuno era venuto in mente di controllare che tutti quei dottori avevano già pubblicato a stampa la loro tesi, magari presso editori prestigiosi, e che pertanto non potevano mettere on line materiale i cui diritti appartenevano all'editore.
Con criteri del genere è sempre possibile che una commissione di cinque membri che deve scegliere tra cento candidati (accade) possa far passare chi vuole, quando basta che di un candidato A si dica che il suo lavoro è «molto originale» ma di un candidato B si dica che è «notevolmente originale», e A è fuori gioco, anche se nessuno può dire che non sia stato valutato con rispetto. Ma vi sono altre caratteristiche dei concorsi che ingiustamente colpiscono l'immaginazione del laico.
Ad ogni tornata di articoli sui difetti dell'università si cita sempre il caso del solito candidato che consegna al notaio in busta chiusa il nome del futuro vincitore, e ci azzecca. Certamente questa sua capacità profetica denuncia un crimine quando il vincitore è persona di poco merito; ma che cosa significa quando il vincitore sia bravissimo? Se un professore fa il suo mestiere, e cioè si tiene al corrente di quanto viene pubblicato nel suo campo, dovrebbe già conoscere più o meno tutti coloro che si presenteranno al concorso. E non c'è nulla di strano che nell'ambiente, essendo noto un candidato A come bravissimo, corra la voce che, se il concorso viene fatto secondo giustizia, non potrà non vincere. Quindi il prevedere il vincitore può essere segno sia di vizio che di virtù del concorso. E tuttavia la notizia della previsione azzeccata provoca di solito ondate di pubblica indignazione.
Con queste idee abbastanza mitologiche sull'andamento delle cose universitarie è ovvio che anche i progetti di riforma vadano a colpire aspetti secondari del problema lasciando in ombra quelli più drammatici, e spesso peggiorando le cose. Un caso tipico è il progetto di costituire commissioni per sorteggio e non per elezione. Qualsiasi regolamento concorsuale (come d'altra parte ogni legge umana) viene fatta presumendo che gli uomini si comportino per definizione disonestamente (in un mondo di virtuosi le leggi non sarebbero necessarie). Quindi analizziamo le proposte di riforma concorsuale secondo il principio che il docente delinque per definizione.
Se è così in un sistema fondato sul sorteggio si potrà delinquere come prima: tu che sei sorteggiato mi fai il favore di sostenere A, e la prossima volta che saremo sorteggiati io o uno dei miei il favore ti sarà restituito.
Ma c'è di peggio. Come panacea viene ora proposto un sistema che prevede l'elezione da parte dei docenti di tre volte tanto i commissari possibili, dopo di che si procede per sorteggio. Benissimo, tranne che ci sono moltissimo raggruppamenti disciplinari dal numero abbastanza basso di docenti. Pertanto la maggior parte degli eletti (e probabilmente dei sorteggiati) apparterranno a una disciplina affine. Spesso, se il raggruppamento è molto specifico, la disciplina più affine ha poco a che vedere con esso. Ma (sempre partendo dal principio che il commissario di regola delinqua), un commissario sorteggiato, provenendo da disciplina affine, farà vincere un suo discepolo, che solo nominalmente ha competenza nella materia a concorso. D'altra parte anche il commissario può non essere in grado di giudicare con reale competenza candidati del raggruppamento affine. Come conseguenza, dopo il giudizio pronunciato da un incompetente, sarà un altro incompetente a occupare il posto di ricercatore, associato o ordinario. Come contributo al risanamento della didattica e della ricerca, non male.
Ecco qui poche osservazioni (fatte da chi ormai è in pensione e non ha da difendere posizioni di potere, non ha ricercatori, associati o ordinari che portino il suo cognome e francamente in quasi quarantanni di carriera nello stesso dipartimento non ricorda di aver avuto allievi o colleghi che fossero figli di barone) semplicemente per suggerire che, prima di procedere a proposte di riforma, occorre anche difendere un poco l'università italiana. Se non altro perché il tenore delle critiche che si leggono sui giornali è tale da far sospettare che gli autori degli articoli non ce l'abbiano fatta ad arrivare alla laurea.