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Ma il talento si coltiva con lo studio

Marco Lodoli

12/12/2013
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la Repubblica

DICIAMO la verità: fa abbastanza paura sentir parlare del patrimonio genetico come premessa per arrivare all’eccellenza o precipitare nell’insuccesso. È mostruoso pensare che sia già segnato dall’origine, come se ogni bambino portasse a scuola, insieme allo zaino e alla merenda, il suo irrevocabile destino segnato nei geni. È una visione terrificante, un’ipotesi crudele e vagamente nazista che rischia di cancellare ogni idea di impegno, apprendimento, sviluppo, crescita.
È chiaro che ogni insegnante si rende rapidamente conto di chi tra gli alunni appare più sveglio e chi più lento, ma allo stesso tempo l’esperienza invita ogni professore a essere prudentissimo nei giudizi iniziali e a continuare a lavorare sodo affinché tutti quanti diano il meglio. Troppe volte ho visto studenti brillanti impantanarsi nella mediocrità perché non coltivavano affatto le loro qualità: convinti di essere bravi si impigrivano miseramente e restavano al palo; e viceversa, studenti insicuri, traballanti, modesti che si rimboccavano le maniche e nel giro di un paio d’anni crescevano splendidamente. I valori di partenza sono soltanto talenti da sviluppare con l’applicazione e l’impegno, c’è chi li sfrutta e chi li seppellisce sotto metri di vuota supponenza.
Il salto di qualità può arrivare all’improvviso: ci sono studenti che per anni sembrano dormire nel loro banco defilato e in un giorno fioriscono, perché in realtà hanno assimilato molto più di quanto si credeva, sono cantieri che lavorano in silenzio e alla fine producono l’inaspettato. È meglio lasciar perdere ogni tentazione genetica, che rischia solo di creare assurde e pericolose differenze e di svilire ogni idea di trasformazione culturale. La storia è piena di grandi uomini che a scuola arrancavano, come di enfant prodige persi nel nulla. Siamo tutti creta e tornio: bisogna faticare per darsi una forma giusta, niente ci viene regalato


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