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La Stampa - A scuola va superato il monopolio confessionale

Editoriali e opinioni A scuola va superato il monopolio confessionale L'ora di religioni 7 novembre 2001 di Elena Loewenthal L'insegnante di religione passa di ruolo. Dopo decen...

07/11/2001
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La Stampa

Editoriali e opinioni

A scuola va superato il monopolio confessionale
L'ora di religioni

7 novembre 2001

di Elena Loewenthal

L'insegnante di religione passa di ruolo. Dopo decenni di precariato cronico, in una scuola dove le certezze sfumano rapide insieme a bislacche sperimentazioni ed esami di maturità perennemente rivedibili, quell'ora sospesa fra il dogma e la ricreazione pura si consolida in un disegno di legge che prevede l'assegnazione di un posto fisso per il 70 per cento dei ventimila insegnanti di religione nelle scuole pubbliche del nostro paese.

La vicenda è alquanto confusa, per non dire paradossale, con alcuni tratti disperatamente italiani come quel tipico e nostrano talento nel dare a ciò che è provvisorio parvenza di eternità, creando - tanto in politica quanto nel mondo del lavoro - un'ambigua stabilità fatta di precari dalla barba bianca e pensionati in fasce. Gli insegnanti di religione con quattro anni di servizio e un orario "non inferiore alla metà di quello dell'obbligo" potranno conquistare una dignità di ruolo attraverso un concorso; ma di qui in poi la via procede offrendo nuovi e originali spunti alla "vexata quaestio" sul conflitto d'interessi.

Perché l'idoneità al ruolo sarà vagliata, tanto per i nuovi ingressi quanto per chi dovrà conservare il posto, dalla autorità ecclesiastica, attraverso la formulazione o meno di un benestare del vescovo ordinario - e quel "meno" riguarderà ad esempio gli insegnanti che divorziano o procreano fuori del matrimonio, comportamenti considerati incompatibili con l'insegnamento della religione. Per il quale d'altro canto non sarà necessaria la laurea - discutibile controtendenza in un paese dove le maestre elementari lasceranno presto spazio a più titolate professioniste.

Non è difficile immaginare quale tempesta di piccole e grandi questioni si solleverà intorno al vecchio professore di religione, figura dai contorni sfumati - un po' catechista e un po' confidente, pronto a sollevare i grandi temi dell'esistenza ma anche a cadere nella demagogia, pur di non sentirsi di troppo fra l'ora di greco e quella di chimica.

Ma l'ambiguità di questa vicenda, tanto nel passato quanto in quel che possiamo facilmente prevedere per il prossimo futuro, ha una radice profonda e sostanziale. Chiama in causa non una astratta laicità delle istituzioni intesa come indifferenza, bensì il senso che ad abitare questo mondo, e anche il nostro paese, è un'umanità variegata che non si riconosce tutta negli stessi simboli e nella medesima dottrina.

Perché non trasformare quell'ora di religione nella scuola di Stato in una sorta di "rassegna" delle fedi che si affianchi con coscienza a storia, geografia, filosofia e scienze? In un mondo sempre più alle prese con il confronto - drammatico o dialogico, intellettuale o di sangue - pensare all'insegnamento della religione in termini di monopolio confessionale è anacronistico prima ancora che inadeguato.

Editoriali e opinioni

A scuola va superato il monopolio confessionale
L'ora di religioni

7 novembre 2001

di Elena Loewenthal

L'insegnante di religione passa di ruolo. Dopo decenni di precariato cronico, in una scuola dove le certezze sfumano rapide insieme a bislacche sperimentazioni ed esami di maturità perennemente rivedibili, quell'ora sospesa fra il dogma e la ricreazione pura si consolida in un disegno di legge che prevede l'assegnazione di un posto fisso per il 70 per cento dei ventimila insegnanti di religione nelle scuole pubbliche del nostro paese.

La vicenda è alquanto confusa, per non dire paradossale, con alcuni tratti disperatamente italiani come quel tipico e nostrano talento nel dare a ciò che è provvisorio parvenza di eternità, creando - tanto in politica quanto nel mondo del lavoro - un'ambigua stabilità fatta di precari dalla barba bianca e pensionati in fasce. Gli insegnanti di religione con quattro anni di servizio e un orario "non inferiore alla metà di quello dell'obbligo" potranno conquistare una dignità di ruolo attraverso un concorso; ma di qui in poi la via procede offrendo nuovi e originali spunti alla "vexata quaestio" sul conflitto d'interessi.

Perché l'idoneità al ruolo sarà vagliata, tanto per i nuovi ingressi quanto per chi dovrà conservare il posto, dalla autorità ecclesiastica, attraverso la formulazione o meno di un benestare del vescovo ordinario - e quel "meno" riguarderà ad esempio gli insegnanti che divorziano o procreano fuori del matrimonio, comportamenti considerati incompatibili con l'insegnamento della religione. Per il quale d'altro canto non sarà necessaria la laurea - discutibile controtendenza in un paese dove le maestre elementari lasceranno presto spazio a più titolate professioniste.

Non è difficile immaginare quale tempesta di piccole e grandi questioni si solleverà intorno al vecchio professore di religione, figura dai contorni sfumati - un po' catechista e un po' confidente, pronto a sollevare i grandi temi dell'esistenza ma anche a cadere nella demagogia, pur di non sentirsi di troppo fra l'ora di greco e quella di chimica.

Ma l'ambiguità di questa vicenda, tanto nel passato quanto in quel che possiamo facilmente prevedere per il prossimo futuro, ha una radice profonda e sostanziale. Chiama in causa non una astratta laicità delle istituzioni intesa come indifferenza, bensì il senso che ad abitare questo mondo, e anche il nostro paese, è un'umanità variegata che non si riconosce tutta negli stessi simboli e nella medesima dottrina.

Perché non trasformare quell'ora di religione nella scuola di Stato in una sorta di "rassegna" delle fedi che si affianchi con coscienza a storia, geografia, filosofia e scienze? In un mondo sempre più alle prese con il confronto - drammatico o dialogico, intellettuale o di sangue - pensare all'insegnamento della religione in termini di monopolio confessionale è anacronistico prima ancora che inadeguato.