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La ricerca litiga sul suo tesoretto

Sfida tra enti e università

02/12/2017
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la Repubblica

Quattrocento milioni di euro per la scienza: li aveva promessi, l’estate scorsa, la ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Fresca di accordo con l’Istituto italiano di tecnologia, che “cedeva” parte del suo tesoretto (250 milioni su un totale di 400 accantonati su un conto della Banca d’Italia), Valeria Fedeli annunciava la più sostanziosa iniezione di denaro degli ultimi decenni per gli scienziati italiani. Da allora era calato il silenzio, tra l’attesa e le perplessità di professori e ricercatori. Ora si scopre che in realtà il bando Prin (Progetti di interesse nazionale) del ministero è quasi pronto per la pubblicazione e potrebbe essere questione di giorni.

Trapelano anche i primi, significativi, dettagli. A cominciare dalla cifra effettiva che sarà messa in palio tra i diversi progetti di ricerca: 391 milioni di euro, perché circa 9 milioni serviranno per la gestione del bando stesso.

Il budget sarà ripartito fra tre macrosettori, seguendo l’esempio virtuoso dei fondi distribuiti dallo European research council (Erc): scienze della vita (140 milioni), fisica, chimica e ingegneria (140 milioni), scienze sociali e umanistiche (111 milioni). Si ispira all’Europa anche il criterio di valutazione: prima una scrematura fatta dai Comitati di selezione istituiti dal ministero (durante la quale si terrà conto anche del coinvolgimento dei ricercatori under 40), poi una seconda fase in cui sui progetti finalisti dovranno esprimersi esperti internazionali. E anche la cifra massima destinata ai singoli progetti vincitori si avvicina (almeno per ordine di grandezza) a quella prevista dai fondi europei: un milione e 200mila euro.

Ma qui si fermano le somiglianze con gli Erc. Perché mentre il grant europeo è sostanzialmente un finanziamento individuale a singoli scienziati particolarmente brillanti, il bando Prin che sta per essere varato a Viale Trastevere è come sempre destinato a progetti gestiti da diversi gruppi di ricerca. Ogni progetto dovrà essere diretto da un professore o un ricercatore universitario a tempo indeterminato con ancora almeno quattro anni di servizio davanti a sé (quindi non necessariamente giovanissimo). E potrà prevedere un numero di unità di ricerca compreso tra uno e sei. Insomma, il milione e duecentomila sarà diviso tra decine di studiosi e nell’arco di tre anni.

È questo il modo migliore per usare i 400 milioni faticosamente raggranellati dal ministero? Non c’è il rischio che si esauriscano in tre anni senza lasciare il segno e riportando così la ricerca italiana al via?

Di positivo c’è l’ammontare complessivo: l’ultimo bando Prin assegnava un totale di 92 milioni di euro. Qui quella cifra è moltiplicata per quattro.

Maria Pia Abbracchio, farmacologa dell’Università di Milano nonché presidente dell’Osservatorio della ricerca della stessa Università, è cautamente allegra: «Se è davvero così, significa 130- 140 progetti finanziati con 1,2 milioni di euro, e va molto bene!». Diviso per tre (gli anni) e poi per quattro (il numero medio di gruppi che partecipano a ciascun progetto) significherebbe centomila euro all’anno a ciascun gruppo.

«Sarebbe davvero bello: è una cifra sufficiente a fare una buona ricerca. Ed è anche quello che mediamente danno le agenzie tedesca e svizzera».

Una ripartizione che dunque rassicura il mondo universitario, in sofferenza economica da anni. Ma che probabilmente scontenta gli enti che fanno ricerche molto costose: con 100mila euro l’anno si paga uno stipendio e qualche attrezzatura, non certo il necessario per un grande esperimento.

Molto critico, per esempio, è Fernando Ferroni, presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (ente che ha contribuito con 13 milioni al gruzzolo dei 400): «Se davvero è così, si sta innescando un meccanismo deleterio. Si favoriranno le cordate invece di scegliere giovani talenti e affidare loro un budget importante per costruire una squadra e condurre le loro ricerche. Non vedo nessuna differenza rispetto ai vecchi Prin: ci sono solo molti più soldi in ballo e si accontenteranno più persone». Ma Ferroni critica severamente anche un altro punto: «Pur essendo professore universitario, non capisco perché i coordinatori dei progetti presentati debbano provenire necessariamente da un ateneo e non da un ente di ricerca».

Anche per il presidente del Cnr Massimo Inguscio bisognerebbe investire su grandi progetti: «Le idee su cui puntare sono la ricerca sullo stato di salute della Terra, le energie rinnovabili, le tecnologie per la salute e quelle quantistiche. E i beni culturali».

Mentre Anna Grassellino, classe 1981, una fulminante carriera al Fermilab di Chicago fino al premio per i ricercatori più promettenti degli Usa, il Pecase, sostiene che si debbano costruire «grandi centri di ricerca basati sulle nuove tecnologie degli acceleratori di particelle, come in America, in Germania, in Svezia. Si attirano non solo i fisici e l’industria, ma anche chimici, biologi e altri scienziati che li usano per i propri esperimenti e li useranno per decenni». A Cambridge c’è la neuroscienziata Maria Grazia Spillantini, che tra le altre cose è membro della Royal Society, la più antica accademia scientifica al mondo (quella di Newton, Einstein, Darwin…). Che aggiunge: «La cosa davvero importante è che la distribuzione dei fondi sia basata su una vera meritocrazia, facendo valutare le proposte da comitati internazionali disinteressati».


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