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L'alternanza senza scuola

13/12/2016
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Rassegna.it

Nel suo discorso post-referendum, tra i “grandi” risultati rivendicati dal premier Renzi per il suo governo non c’era la Buona Scuola. Il percorso della legge 107, in effetti, a un anno e mezzo dalla sua entrata in vigore, è stato accidentato, inutilmente complicato e ha quasi sempre scontentato tutti. Uno dei capitoli più controversi ha riguardato l'obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro. Di quei percorsi didattici, cioè, che, in un’ottica formativa e pedagogica, dovrebbero avvicinare i ragazzi al lavoro, portandoli in aziende adeguate a un compito importante: aiutarli ad avvicinare sapere e saper fare. Il dlgs 77/05 che ha regolato per primo l’alternanza, nel rispetto dell’autonomia scolastica non fissava alcun obbligo: erano gli istituti, cioè, a presentare progetti e a fissarne la durata. Con la legge 107, però, è cambiato tutto: non solo l’alternanza diventa obbligatoria, ma le legge ne fissa anche la durata: 200 ore nei licei e 400 negli altri istituti di istruzione secondaria.

Sembra un dettaglio marginale, ma non lo è. E il risultato era immaginabile: grandissime difficoltà delle scuole, soprattutto in territori in cui il tessuto economico è meno sviluppato, a trovare imprese disponibili e, conseguentemente, dovendo rispettare un obbligo di legge, un valore formativo spesso assai scarso di queste esperienze. I dati di una recentissima ricerca Cgil, Flc Cgil e Fondazione Di Vittorio parlano chiaro: un ragazzo su quattro è fuori da percorsi di qualità; l’80 di esperienze si sono svolte, almeno in parte, in estate; l’80 per cento delle scuole ha progettato percorsi a partire dall’offerta di soggetti privati e in modo occasionale e il 90 dei progetti si è svolto in piccole e medie imprese e la metà addirittura in micro aziende, da 5 a 9 dipendenti. E qui sta il primo punto dolente: come possono piccole imprese fornire tutor e ambienti formativi adeguati? Per quanto anch’esso debba avere standard adeguati, l’alternanza durante il periodo scolastico non può infatti essere paragonate a un tirocinio o, ancor meno, all’apprendistato, che presuppone anche un contratto. Deve avere cioè standard formativi molto elevati, come per esempio avviene in Germania.

In realtà in origine la legge 107 prescriveva l’obbligo per le aziende disponibili a iscriversi in un registro, che doveva contenere alcuni requisiti certificati dalle Camere di commercio: una sorta di bollino di qualità, insomma. “Ma già nella guida che accompagnava la legge si chiariva che l’iscrizione non era obbligatoria – spiega Luigi Rossi, segretario della Flc Cgil –.  Il risultato è che a oggi si sono iscritte solo 600 imprese e questo la dice lunga rispetto alla volontà e alla capacità formativa delle aziende italiane. Doveva essere un meccanismo alla tedesca e invece il risultato è una miriade di protocolli, accordi e convenzioni stipulati con chicchessia dove c’è dentro di tutto e poco controllo”.

I campioni dell’alternanza
Gli studenti, che contro questa idea dell’alternanza hanno manifestato tante volte – l’ultima il 10 novembre, con una serie di flash mob in tutta Italia – hanno la certezza che le situazioni irregolari siano tante. “Sono anni che denunciamo le condizioni in cui versano tanti studenti coinvolti in questi percorsi – attacca Aksel Nikaj, Uds –. Abbiamo avuto casi in cui i giovani sono stati mandati a raccogliere i pomodori o a lavare i piatti negli alberghi. Proprio perché crediamo nell’importanza di un’alternanza di qualità, cose di questo tipo non ci piacciono, non avendo evidentemente alcun valore formativo”. Per l’Uds, poi, servirebbe anche un codice etico che le aziende debbono rispettare per potersi proporre come soggetti formativi: “Occorre rispettare l’ambiente e i diritti dei lavoratori che vi operano”, in primo luogo. Sempre la legge 107, proprio per evitare abusi e irregolarità, prevedeva una Carta dei diritti e dei doveri in alternanza: anche in questo caso di questo testo non v’è ancora traccia.

Ascolta l'inchiesta in podcast

Le scuole, insomma, hanno grandi difficoltà nel trovare aziende disponibili. Ed è uno dei motivi, probabilmente, che hanno spinto il governo a lanciare, il 18 ottobre scorso, il progetto “Campioni per l’alternanza”. Si tratta di un protocollo d’intesa con sedici aziende per accogliere studenti. Tra i nomi spiccano quelli di Mc Donald's, Zara, Fca, Eni. Nonostante l’enfasi, le critiche verso le virtù formative di queste multinazionali sono state molto nette. Cosa può imparare uno studente nel regno del panino imbottito, ad esempio?

“Per noi – dice nettamente Rossi – sono aziende con una filosofia di lavoro e formazione molto lontana da quella che servirebbe per un percorso didattico”. Conferma Cristian Sesena, che segue il comparto dei fast food per la Filcams Cgil. “La scelta è coerente con l’idea che il governo ha del lavoro, ma per noi è sbagliatissima. Prima di tutto: noi immaginiamo un’alternanza scuola lavoro che affianchi al percorso formativo un’adeguata esperienza nel mondo del lavoro, affinché gli studenti acquisiscano capacità e, insieme, una prima idea dei propri diritti e doveri. È chiaro che McDonald's per il tipo di lavoro che vi si svolge, e le condizioni normative e salariali che applica ai propri lavoratori – ad esempio non ha relazioni sindacali strutturate – non è il miglior partner possibile”.

E poi, che cosa faranno gli studenti? L’azienda ha assicurato che non staranno in cucina. Cosa resta, allora, per i 10.000 giovani che la multinazionale si è impegnata ad accogliere? “Non sono molto fiducioso – aggiunge Sesena –. Formalmente dovrebbero svolgere mansioni di affiancamento o accoglienza del cliente. Ma cosa vorrà dire? Nei fast food, se non stai in cucina o sparecchi i tavoli, non c’è tanto altro. E poi chi controlla che gli impegni vengano rispettati? I ristoranti sono frammentati in una miriade di licenziatari che hanno semplicemente un brand, ma non rapporti diretti con la casa madre”. 

Le scuole, i territori e l’impresa simulata 
Come già detto, con la legge 107 le scuole sono tenute a inserire i percorsi in alternanza nel Ptof (il Piano triennale dell’offerta formativa) non occasionalmente o facoltativamente, ma come elemento strutturale di tale documento. E questo crea non pochi problemi, soprattutto in alcuni territori. Franco Onorati insegna nell’istituto di istruzione secondaria di Manfredonia, in provincia di Foggia: “Un tempo da noi c’era l’Enichem, oggi il tessuto produttivo è ridotto a poco e le varie riconversioni tentate sono fallite. Il risultato è che le scuole debbono spesso ricorrere all’impresa simulata per ottemperare agli obblighi dell’alternanza. Esistono software, ovviamente a pagamento. Si tratta di una possibilità che la legge offre e che dovrebbe però rimanere residuale”. Insomma: si simula la nascita di una start-up in un luogo dove per i giovani le possibilità effettive sono poche. Non solo: “Dalla riforma Gelmini in poi – aggiunge il docente – ci si dice che gli istituti tecnici devono specializzarsi sempre di più e poi, in questo modo e con questa confusione e difficoltà, si sottraggono 400 ore curriculari senza avere la disponibilità di aziende specializzate che accolgono gli studenti stessi”.

Le tante difficoltà per onorare questo impegno vengono confermate anche da Salvatore Imparato che insegna all’istituto di istruzione secondaria di Civitavecchia: “Anche noi – spiega – ci muoviamo tra grandi difficoltà e confusione. Condivido i limiti dell’impresa simulata, che può essere utile magari in particolari profili formativi, tipo il commerciale, ma per il resto non saprei, francamente. Non vedo come si possa inserire il lancio di una start-up o la gestione d’impresa all’interno di un percorso didattico che non prevede questi contenuti”. Un altro tema importante che angustia le scuole, perché implica rilevanti responsabilità dirette, è quello dell’assicurazione e della formazione. A oggi non c’è certezza che sia prevista una copertura in itinere tra casa e azienda. Un aspetto grave se pensiamo al fatto che molti ragazzi percorrono anche 100 chilometri per raggiungere le sedi dell’alternanza. Quanto alla formazione, “noi docenti – aggiunge Imparato – stiamo cercando di organizzare una rete di scuole per preparare i docenti sia sui temi della sicurezza, che quando si opera in ambienti lavorativi sono importanti, sia per quanto riguarda le competenze che un tutor dovrebbe avere, come indicato anche dalla legge, ma a cui in realtà nessuna ha finora provveduto”. 

Realtà e ideologia 
“Da tutto questo emerge – riprende Rossi – il  forte approccio ideologico della Buona Scuola, a partire dall’esclusione dei sindacati da qualsiasi discussione. Ma la cosa più grave è che si configura un’idea del futuro lavoratore coerente a quella delineata nel Jobs Act. Con questa filosofia dell'alternanza, con accordi come quello con Mc Donald’s, si punta a formare i giovani in una logica funzionale a questa idea di impresa e di mercato. E allora non è un caso che un registro che certifichi la qualità delle imprese non sia obbligatorio”. L’idea che stava all’origine era diversa: “Noi siamo per la buona alternanza – conclude il sindacalista –: centrata sui bisogni dei ragazzi e non delle imprese. Da questo punto di vista l’obbligo di un tot di ore non ha senso: sono le scuole a dover definire i progetti sulla base delle esigenze dei ragazzi e dei diversi contesti economici e culturali”. Altrimenti, il passo dal Mc Donald's ai Mc Jobs è breve.


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