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I ricercatori: poco competitivi. Così perdiamo i fondi europei

Il confronto è avvenuto ieri a Palazzo Madama nel corso del convegno su «scienza, innovazione e salute».

11/12/2013
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Corriere della sera

Il mondo della ricerca scientifica italiana lancia un grido d’allarme: «Perdiamo finanziamenti europei e competitività». Ma la politica, a cominciare dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, rilancia: «Nel Paese manca un clima di fiducia, ma dobbiamo reagire. E i giovani impegnati nel mondo della ricerca costituiscono per me una sorgente di fiducia nelle possibilità e nelle prospettive del Paese». Il confronto è avvenuto ieri a Palazzo Madama nel corso del convegno su «scienza, innovazione e salute».
«Abbiamo bisogno di dare sicurezza ai giovani — ha spiegato il presidente della Repubblica — ed è molto importante che ci siano dei momenti e dei luoghi di riflessione e di scambio sui problemi del Paese e del suo futuro, al riparo dal frastuono delle polemiche politiche e così dannatamente sempre in campagna elettorale, anche quando non ci sono elezioni dietro l’angolo». Parole condivise dal presidente del Senato, Pietro Grasso: «La ricerca non è un costo, ma un valore, un fattore di crescita che punta su conoscenza e intelligenza».
«Una volta gli inglesi venivano a studiare in Italia. Si può tornare a quel punto?» si è chiesto Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri di Bergamo, tra gli intervenuti insieme al filosofo Giulio Giorello e a Luigi Nicolais, presidente del Cnr.
In vista del semestre europeo a guida italiana «una delle sfide da affrontare sarà far tornare competitivo il mercato Ue per gli investimenti in scienza e ricerca», ha auspicato Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, che ha rivelato: «I grandi investitori, compresi i big pharma, non investono più in Europa perché la normativa è frammentata ed eccessivamente burocratica. In Italia, però, alla fragilità delle istituzioni politiche uniamo anche quella delle istituzioni scientifiche. Perciò dobbiamo ridare autorevolezza alla ricerca» perché «da lì può partire l’economia e la nostra capacità di creare Pil».
Non la pensano così Elisabetta Dejana dell’università degli Studi di Milano e Andrea Bonaccorsi, dell’università di Pisa: «Negli ultimi due anni i progetti italiani che hanno avuto finanziamenti europei sono stati il 2,7%, diminuiti del 5% rispetto agli anni precedenti, comunque sotto la media Ue che è intorno al 12%». Investire in ricerca, però, conviene: «L’Italia tra 1998 e 2008 ha prodotto 371 mila pubblicazioni (quarto posto in Europa, ndr ) e il tasso di rendimento annuale che si genera nel sistema economico se un governo investe in ricerca è tra il 20 e il 50%». Inoltre la ricerca pubblica «si ripaga in 2-5 anni, mentre la formazione di uno studente, dall’asilo alla fine del percorso universitario, costa circa 270 mila euro». Questi cervelli poi «spesso lasciano il Paese per poter lavorare senza essere oppressi dalla burocrazia — ha precisato Dejana —. Nel biennio 2011-2012 sono stati circa 10 mila gli under 35 emigrati per lavoro e, di questi, 2 mila sono andati via per proseguire studi o progetti nella ricerca biomedica». Buone notizie però arrivano da Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione europea: «L’Italia è al quarto posto per l’utilizzo dei finanziamenti in Ue per la ricerca — ha detto in videoconferenza —. E il nuovo programma “Horizon 2020” permetterà di sviluppare ancora di più gli investimenti e creare nuovi posti di lavoro».
Francesco Di Frischia

 


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