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Caramia (Flc Cgil), alternanza scuola-lavoro sia un obiettivo, non punto di partenza

Il primo anno e mezzo di attuazione del progetto alternanza scuola-lavoro previsto dalla legge Buona Scuola ha prodotto risultati soddisfacenti. Uno studio condotto dalla Fondazione di Vittorio, a cura di Anna Teselli, rileva però elementi di confusione e contraddizioni  interne al progetto sia sul versante della scuola che su quello di imprese ed enti ospitanti

12/02/2017
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Il primo anno e mezzo di attuazione del progetto alternanza scuola-lavoro previsto dalla legge Buona Scuola ha prodotto risultati soddisfacenti. Uno studio condotto dalla Fondazione di Vittorio, a cura di Anna Teselli, rileva però elementi di confusione e contraddizioni  interne al progetto sia sul versante della scuola che su quello di imprese ed enti ospitanti. A questo proposito, Il diario del lavoro ha intervistato Gigi Caramia, segretario nazionale della Flc Cgil.

Come si pone il sindacato nei confronti dell’alternanza scuola-lavoro?

L’idea dell’alternanza scuola-lavoro fa parte della cultura e della tradizione pluridecennale di sinistra di questo paese. L’idea è quella di una scuola che si apre al territorio e che cerca di analizzarlo e trasformarlo, per modificare l’approccio didattico ed educativo non legato soltanto alle aule. Noi rispetto all’alternanza scuola lavoro, per come si sta realizzando in questi mesi, abbiamo riserve e profonde criticità. Sto girando da più di un anno tutti i territori e ho riscontrato grosse difficoltà, dal momento in cui alle scuole è stata consegnata un’attività da svolgere in alternanza per poi essere abbandonate a se stesse. Quando l’anno prossimo si arriverà a pieno regime, si parlerà di un progetto rivolto a 1milione di ragazzi. C’è inoltre una grande confusione su cosa sia l’alternanza scuola-lavoro, che è a tutti gli effetti una metodologia didattica e che non va confusa con l’apprendistato, la formazione continua dei lavoratori. L’alternanza è a tutti gli effetti un dispositivo diadattico e per questo preferiamo chiamarla istruzione integrata, che significa conoscere il territorio non soltanto nei contesti lavorativi ma anche  nei contesti ambientali, culturali. Così intesa, l’alternanza rappresenta una grandissima opportunità. Vederla come addestramento verso il mondo del lavoro, invece, l’alternanza rischia di diventare un’esperienza fallimentare. Come sindacato, riteniamo che l’attività svolta dai ragazzi debba incoraggiarli, non sistemarli.

Come valuta i risultati del primo anno del progetto?

Se si guarda solo ai numeri si rileva che l’anno scorso l’alternanza è stata praticata da 500mila ragazzi. L’idea che vige è quella di progetti fatti da queste grandi imprese che rappresenterebbero degli elementi di eccellenza. Tuttavia i ragazzi raccontano vicende incredibili. Le scuole vengono lasciate a loro stesse, non viene svolta un’attività riflessiva. Insieme ad esperienze interessanti c’è quindi un grande scoramento. Lo scorso ottobre la Flc, la Cgil e la Fondazione di Vittorio hanno condotto un monitoraggio che riporta dati per molti versi scoraggianti da questo punto di vista. La differenza sta tra l’alternanza come singolo progetto rivolto a piccoli gruppi elettivi di ragazzi e l’alternanza per tutti, talvolta per 1.000 ragazzi per istituto. Le scuole non sono in grado di realizzarlo all’improvviso. Tentano di farlo al meglio, ovviamente, ma la situazione è molto seria in tutti i territori.

 Quindi difficilmente conciliabile con i problemi interni alla scuola?

La scuola viene da un decennio di tagli inenarrabili: 8/10 miliardi, 120.000 posti di lavoro in meno. La cosa che rischia di aggravare la situazione è che in molti casi l’alternanza fatta solo come un adempimento formale sta rischiando di  trasformarsi in riduzione di attività legate al curriculum, laddove l’idea di alternanza doveva essere uno strumento per realizzare gli obiettivi del curriculum arricchendolo.  In molti casi è diventato una cosa aggiuntiva e talvolta sostituiva. L’alternanza deve coinvolgere i docenti di tutte le aree, non solo di quelle tecnico-scientifiche, ma anche di quelle umanistiche, per avere un’idea unitaria del sapere nel confronto con la realtà. È questa la grande sfida del progetto.

Aziende ed enti pubblici sono pronti a questo tipo di esperienza?

Credo che la capacità formativa delle imprese in questo paese sia uno dei problemi più grandi. È difficile immaginare che si possa fare un percorso formativo presso un’impresa che  abitualmente non fa formazione per i propri dipendenti. Peraltro, rispetto a quello che avviene ed esempio in Germania, noi non abbiamo figure professionali legate alla trasmissione del sapere nell’ambito dei contesti lavorativi. Questo testimonia anche la diversità dell’alternanza intesa come dispositivo di  istruzione rispetto ad altri contesti come l’addestramento o la formazione continua. In un contesto di istruzione, l’alternanza deve avere caratteristiche poco strutturate per consentire ai ragazzi di esplorare, di  scoprire, mentre in un contesto di formazione continua bisogna imparare a fare una cosa nei tempi più brevi possibili. Spesso le imprese con le dotazioni tecnologiche più aggiornate, non è detto che siano i contesti migliori di apprendimento in ambito educativo e di istruzione. I contesti di istruzione sono un po’ meno strutturati e un po’ più flessibili perché al ragazzo va data la possibilità di usare un oggetto anche  in una maniera imprevista. Per fare questo si ha bisogno di persone che  abbiano competenze per  apprendere una certa maniera.

Secondo alcuni osservatori, potrebbe esserci un rischio di dequalificazione e sfruttamento degli studenti. Lei che ne pensa?

È una delle cose che viene più denunciata dagli studenti. Ad esempio, nelle attività estive si verifica una mera prestazione lavorativa gratuita. Il lavoro deve essere retribuito, altrimenti veicoliamo un messaggio sbagliato ai ragazzi. Nell’alternanza i ragazzi non possono sostituire posizioni professionali. I rischi sono molto forti ed evidenti.  Il progetto dell’alternanza si è trasformato in un puro e semplice adempimento da fare in estate, quando invece ha bisogno di una convenzione, di tutor, di tempi e di una coerenza con il profilo curriculare dei ragazzi.

Esistono delle strutture di monitoraggio?

Il monitoraggio è una delle note dolenti. Il Miur ha attivato, attraverso la legge 107, uno dei processi più complessi della scuola italiana negli ultimi anni, quello di rendere l’alternanza una attività che devono svolgere tutti. Ma il Miur non ha un numero sufficiente di personale per seguire a livello centrale cosa sta accadendo, non c’è un ufficio alternanza scuola-lavoro. Ci sono persone che sono state individuate nei vari territori, spesso docenti in comando, ma anche loro sono in difficoltà perché parliamo di progetti per tutti, non per pochi. L’unica cosa che il Miur riesce a fare sono i monitoraggi quantitativi: le scuole compilano un format sul sistema informativo del ministero e si ottengono solo numeri relativi a quanti ragazzi sono stati impegnati, quanti progetti, quante attività. Mancano monitoraggi qualitativi.

Ci sono le differenze tra nord e sud, proprio nell’accesso al tessuto imprenditoriale e pubblico?

Il sud  ha un tessuto produttivo molto più debole rispetto agli altri dei territori. Però sulla situazione del sud Italia invito a un approfondimento. In particolare, nelle regioni dell’area convergenza una delle linee di investimento più forti è quella degli stage e dei tirocini attraverso i fondi europei. È molto diffuso, non solo dai programmi operativi nazionali, ma anche di quelli regionali che hanno investito molte risorse. Ad esempio, è abbastanza comune in queste regioni che molti ragazzi abbiano esperienze di  stage all’estero. Se si guarda attentamente, le regioni che hanno speso più risorse su tirocini e stage sono quelle del sud. L’Italia meridionale avrà pure delle scuole disastrate da un punti di vista edilizio, ma ad esempio le dotazioni laboratoriali non hanno paragoni. Se si guarda invece alle risorse nazioni destinate all’alternanza nelle regioni meridionali la situazione è più grave.

Secondo lei, il progetto di alternanza scuola lavoro sarà in grado di colmare il disallineamento tra le competenze richieste dal sistema produttivo e l’attuale offerta formativa?

Lo ritengo improbabile. Si parla di un’attività rivolta a 1milione e mezzo di ragazzi e dire di ottenere un riallineamento tra competenze in uscita su questo numero impressionante di ragazzi rispetto alle richieste del mercato del lavoro è molto difficile. L’alternanza è uno strumento di crescita, non un modo di sistemare i ragazzi. La formazione deve essere molto più flessibile, molto più ampia. Da un punto di vista generico la formazione dello studente deve essere in grado di permettergli di cambiare lavoro e così via,  ma di fatto c’è il rischio di fare attività educative finalizzate a specifiche professioni che possono diventare obsolete nell’arco di pochissimo tempo. A questo proposito il tema della creatività diventa centrale. La creatività viene utilizzata solo nella versione legata alla autoimprenditorialità, che è la risposta a un’esigenza, ma in realtà l’elemento tipico della creatività è proprio immaginare soluzioni che non esistono. Ed è su questo versante che si accentua la differenza con un approccio educativo. Uno dei punti di criticità più è appunto il numero delle ore destinate all’alternanza che non tiene conto delle realtà. L‘attività a scuola non sta tentando più alcun tipo di percorso, è sta diventando solo una questione di 200/400 ore. Le scuole dovrebbero avere come punto di riferimento il registro nazionale delle imprese come elemento a cui rivolgersi per individuare soggetti imprenditoriali credibili e sicuri. Non c’è stata un’idea processuale di realizzare questo complicato progetto, ma propagandistica. Non si riesce a ragionare sugli effetti delle scelte su dimensioni numeriche di questo tipo, per cui si tende a osservare le cose sui piccoli numeri, ipotizzando che quello possa essere il metodo.  Per noi l’alternanza è un obiettivo, non  un punto di partenza.

Elettra Raffaela Melucci


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