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Innovazione e Ricerca in Liguria: prospettive e strumenti

Come CGIL già da tempo siamo impegnati sui temi della ricerca e dello sviluppo in rapporto con il territorio.

28/11/2005
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Relazione di Giuliana Parodi al Seminario

Genova, 28 novembre 2005

Come CGIL già da tempo siamo impegnati sui temi della ricerca e dello sviluppo in rapporto con il territorio.

Ricordo il convegno proprio su questo tema che abbiamo tenuto due anni fa all’Area di Ricerca genovese del CNR.

Ci sembra ora venuto il momento di sollecitare un confronto e un ragionamento comune sul ruolo di regia politica e di contributo effettivo che la Regione deve rapidamente mettere in campo, attraverso l’attivazione di iniziative, dalla stesura di una legge su Università e Ricerca al consolidamento nei bilanci di voci relative a ricerca e innovazione tecnologica. Questo non si può più eludere, pena il ridimensionamento di un processo vitale per il futuro produttivo della nostra regione.

Infatti, in conseguenza del nuovo assetto istituzionale determinato dalla modifica del Titolo V della Costituzione e con i nuovi poteri legislativi attribuiti alle Regioni in maniera esclusiva e concorrente, il governo delle politiche scientifiche, si è suddiviso su tre livelli che, in linea teorica, dovrebbero collaborare e integrarsi: l’internazionale, il nazionale e il regionale.

Al livello internazionale, ed in particolare comunitario, spetta la programmazione dei macroobiettivi di politica scientifica e tecnologica che non possono essere perseguiti da paesi singoli attraverso la predisposizione di progetti di grandi dimensioni, di durata pluriennale e la definizione di obiettivi, risorse e incentivi per la ricerca conoscitiva ad alto rischio e la condivisione delle buone pratiche.

Al livello nazionale spetterebbe, e uso il condizionale visto il comportamento dell’attuale governo, garantire il coordinamento del sistema di ricerca nazionale in quello internazionale, eventualmente sviluppando politiche scientifiche nazionali in settori strategici non adeguatamente coperti dalle previsioni comunitarie (per fare solo un paio di esempi il settore della conservazione dei beni culturali o quello dello sviluppo di tecnologie agricole di nicchia nei settori tipici delle produzioni mediterranee di qualità), garantendone coerenza, dimensionamento e qualità attraverso la promozione della ricerca conoscitiva, lo sviluppo della filiera della conoscenza, il coordinamento delle politiche regionali specialmente in relazione alle politiche per l’innovazione rivolte alle grandi aziende a dislocazione nazionale, il rafforzamento di strutture e laboratori.

E infine, il livello locale, in particolare regionale, che ha il compito, per certi versi più arduo e complesso: garantire le condizioni per cui gli sviluppi scientifici e tecnologici si tramutino in crescita economica e sviluppo sociale, dando vita a politiche industriali, coerenti con l’obiettivo di aumentare la domanda di innovazione da parte del sistema produttivo.

Seguendo questa tripartizione un po’ schematica è evidente che dal livello nazionale e comunitario possono, e anzi, devono arrivare le macroindicazioni ed anche le risorse, ma è al livello locale che l’innovazione può diventare prassi praticata. Diventa quindi fondamentale dotarsi di strumenti adeguati per affrontare e sfruttare questo nuovo scenario.

Alcune Regioni italiane, sulla base di questa nuova ripartizione delle competenze previste dalla Costituzione, si sono dotate di strumenti normativi che si muovono in questa direzione, altre stanno progettando interventi legislativi analoghi.

Non si tratta di un “caso italiano”, ma di una serie di iniziative adottate anche in diversi altri Paesi Europei, sulla base delle indicazioni provenienti dalla Commissione Europea che dal 1995 in avanti, ha prodotto una varietà di soluzioni politiche, il cui tratto comune sta nel tentativo di stabilire dei “modelli regionali” di innovazione ispirati dalla base di competenze radicate nell’area.

Ciascuna Regione ha tentato di configurarsi e di modellare le proprie scelte strategiche utilizzando un meccanismo di “apprendimento organizzativo”, orientandosi da un lato a rafforzare la propria capacità ad operare come deposito di conoscenze e di idee innovative, dall’altro tentando di offrire un ambiente favorevole al flusso di conoscenze, di idee e di apprendimento.

Pressoché in tutti i contesti, la primissima fase di attivazione degli interventi ha richiesto un’opera di razionalizzazione dell’offerta di ricerca e di competenze, attraverso la realizzazione di una rete virtuale di soggetti di cui fosse facilmente identificabile il settore di competenza anche dall’esterno del sistema ricerca.

Sulla base delle esperienze positive messe in atto da altre Regioni anche la Liguria dovrà quindi dotarsi, tenendo conto delle proprie peculiarità e specificità, di una legge su università e ricerca, perché nel contesto di una economia e di una società, che vanno ogni giorno di più caratterizzandosi come una economia e una società della conoscenza, appare evidente la necessità di dotarsi di nuovi strumenti per promuovere e sviluppare la ricerca scientifica.

Dobbiamo però ragionare sulle regole più idonee per far collaborare ricerca pubblica e privata con fondi messi a disposizione dagli enti locali per cofinanziare Università ed Enti di ricerca su progetti definiti dalle stesse strutture locali, sulla base di patti territoriali che si pongano l’obiettivo di uno sviluppo armonico della produzione industriale sul territorio e degli ambiti di ricerca collegati.

Il rischio, quando si ragiona su certi temi, è di finire a sostenere una ricerca molto dipendente dal mercato e dalle necessità di breve periodo della piccola e media impresa in cui il respiro a lungo termine di strutture, dipendenti, e conoscenze scientifiche interdisciplinari, non trova più spazio. E’ quindi doveroso premettere quelle che noi riteniamo debbano essere le finalità principali della ricerca pubblica:

  • acquisire e diffondere la conoscenza in accordo con la sua funzione di qualificazione dell’alta formazione;

  • reindirizzare le conoscenze acquisite verso utilizzi etici che il mercato tenderebbe a trascurare;

  • aprire filoni di ricerca che il mercato non giudica remunerativi (ad esempio i farmaci per la terapia di malattie rare), assumendo la funzione di traino verso campi d’indagine nuovi per l’industria o per qualsiasi altra attività socio-culturale, compresa quella umanistica.

La conseguenza di quanto detto è che:

  • qualunque "ricerca finalizzata", per quanto valida, è destinata a sfiorire rapidamente se le viene a mancare il complemento della ricerca di base;

  • la ricerca pubblica deve restare svincolata da interessi immediati di commercializzazione di un prodotto e dal suo ritorno economico, ponendosi anzi, soprattutto in settori delicati quali la bioetica, come garante altamente affidabile in contrapposizione alla spregiudicatezza del mercato;

  • il finanziamento sia adeguato, assicurato sul lungo periodo e svincolato dall’eventuale gradimento del mercato, perché la ricerca di base possa prosperare;

  • sia assicurato, a chi opera nel settore, un percorso di lavoro dignitoso volto a superare la condizione di precarietà diffusa negli Enti e nell’Università, primo atto per il depauperamento della ricerca pubblica in Italia.

Preso atto della debolezza della ricerca privata in Italia, vediamo comunque con favore un’interazione tra ricerca pubblica e privata, con obiettivi che superino la mera fornitura di servizi. Infatti, nell’interazione mercato-ricerca-territorio, devono essere ben chiare le norme quadro all’interno delle quali stipulare rapporti di collaborazione:

  • devono essere rimodulate le norme che regolano tali rapporti con l’esplicita finalità della salvaguardia e trasparenza dell’investimento pubblico;

  • bisogna rendere impossibile, per un soggetto pubblico, sottostare ai limiti posti dal segreto industriale perchè il fine della collaborazione è la diffusione della conoscenza e non il brevetto;

  • bisogna garantire condizioni normative e contrattuali non penalizzanti o lesive dei diritti del personale addetto alla ricerca, premessa necessaria ad un fattivo rapporto di collaborazione.

E’, in effetti, importante definire bene, anche cosa intendiamo per “collaborazione”: tutte le strutture in gioco devono essere paritetiche e non subordinate l’una all’altra, nè per peso economico nè per peso culturale; ciò che spesso si spaccia per collaborazione con le industrie non è altro che un fornire servizi che l’azienda non può o non vuole istituire in proprio.

Questo potrebbe avvenire soprattutto in realtà come la Liguria, dove molte aziende sono piccole e raramente di punta; non c’è nulla di negativo in ciò ma la collaborazione è qualcosa di più. E’ una crescita di contatti tra soggetti di pari peso, ma di diversi obiettivi, che nell’accrescere e intrecciare competenze arrivano a controbilanciare le rispettive spinte negative (troppo teorica l’accademia, troppo focalizzata sull’utilizzo immediato l’azienda).

In questo senso, la realtà di alcune sezioni locali CNR (con l’attuale integrazione dell’INFM), INFN e Università sono tutti esempi di qualità della ricerca e di integrazione con le attività produttive sia diretta che indiretta; pensiamo all’alto numero di attività consorziate tra industria e strutture di ricerca o agli spin off che si sono sviluppati in seno all’INFM.

Il dato generale è però sconfortante e gli esempi citati prima sono iniziative estemporanee al di fuori di una qualunque regia generale di sistema.

L’esempio più eclatante è proprio nel settore agricolo-florovivaistico che in Liguria occupa una posizione particolare e ci si aspetterebbe una più facile interazione tra enti nazionali di ricerca e territorio. Sul ponente ligure si concentrano infatti ben tre diverse realtà di ricerca: una sezione locale del Centro Ricerche Agricole, il CERSA azienda speciale, costituita attraverso un consorzio tra amministrazioni locali e camera di commercio e l'Istituto Regionale di Floricoltura.

Tutte e tre sono impegnate in progetti nazionali ed internazionali e collaborano con le più vicine facoltà di agraria, ma mentre la prima è parte di un ente nazionale e lamenta scarse interazioni con la Regione Liguria, le altre due collaborano strettamente con la Regione ma complessivamente non "fanno sistema" tra di loro.

La loro storia, la struttura e soprattutto i loro obiettivi istituzionali appartengono ad aree diverse e, se prese separatamente, sono tre piccole realtà, ma se sommate, possono contare su un numero di addetti di tutto rispetto.

Analogamente la situazione della provincia di La Spezia è caratterizzata dalla presenza dei maggiori Enti di Ricerca che operano nel settore ambientale marino: il CNR, l’ENEA e, negli ultimi anni, l’INGV.

Nel recente passato le Amministrazioni Regionali hanno già collaborato con questi Enti per poter usufruire delle loro competenze nel settore ambientale. Anche loro separate sono piccole realtà ma unite potrebbero avere un elevato potenziale umano e strumentale.

Un’accorta regia politica, pur mantenendo la distanza dai concetti di conoscenza accademica fine a se stessa e di conoscenza intesa come merce, dovrebbe essere in grado di mettere a sistema queste realtà così che il sistema Liguria possa sfruttarne appieno le implicazioni culturali e commerciali.

La situazione, ammettiamolo, non è facile.

Come risulta da un’indagine realizzata da noi questa primavera, ponendo specifici quesiti ad alcuni Dirigenti degli Enti Pubblici di Ricerca liguri, l'interazione tra industrie o aziende locali e EPR è debole.

Dalle risposte ottenute emerge che di solito lo scambio tra EPR e grande industria può essere più semplice, ma solo se il tessuto industriale lo richiede.

E’ esperienza comune che si possa lavorare con eguale efficacia, anche con reti di piccole aziende, nonostante le grandi difficoltà nel creare e nel gestire questi “incontri”.

Infatti, non è pensabile che l'industria e la ricerca pubblica si incontrino in modo spontaneo, su un terreno di comuni interessi, ma è necessario costruire un dialogo reale senza demandare la regia ad un improbabile "mercato della conoscenza".

E' necessario quindi affiancare a potenti mezzi tecnologici un progetto per il loro utilizzo che passi per l'acquisizione, a tutti i livelli della pubblica amministrazione, di corrispondenti competenze in materia e ad una sensibilizzazione del mondo produttivo.

Mondo produttivo che nella nostra Regione può contare sulla presenza di industrie a tecnologia avanzata quali Ansaldo, Esaote, Elsag, Fincantieri e Marconi che indicano il nostro territorio come importante culla per lo sviluppo di alta tecnologia. E questa è una caratteristica poco diffusa a livello nazionale soprattutto se si tiene conto che a fianco a questi sono presenti centri pubblici di tutto rispetto per quanto riguarda la ricerca di base e applicata in questi settori.

Bisogna solo metterli in condizioni favorevoli per una corretta e fruttifera collaborazione.

Lo scorso anno, grazie all’attivazione dei programmi del Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale e del Programma Regionale Azioni Innovative, c’è stato un aumento dei fondi regionali erogati alla ricerca pubblica. Ovviamente si auspica che siano sostenuti nei prossimi anni e che vengano incrementati.

Altra e più importante iniziativa è l’Accordo di Programma Quadro sul Distretto Tecnologico per i Sistemi Intelligenti stipulato tra il Governo e la Regione lo scorso settembre con l’obiettivo di creare un circolo virtuoso tra esperti, aziende e finanziamenti pubblici e privati, capace di sviluppare una ricerca competitiva e determinare forti ricadute di innovazione sul tessuto imprenditoriale.

Tra le finalità del distretto vi è lo sviluppo di attività di ricerca applicata con la realizzazione di prototipi, il trasferimento tecnologico alle imprese, anche attraverso la creazione di incubatori di imprese e/o spin-off, con una ben delineata attività di informazione e formazione finalizzata sia alla preparazione specialistica di operatori del settore sia all’aggiornamento professionale in enti e/o imprese. Tutto ciò per creare aggregazioni sistemiche tra grande impresa, piccola e media impresa e Università e accrescere la capacità d’innovazione in quelle attività specifiche da sviluppare nel Distretto.

Attività che si rifanno a discipline e tecnologie, quali informatica, elettronica, telecomunicazioni, bioingegneria, meccanica e robotica, che tengono conto sostanzialmente dello storico coinvolgimento delle imprese liguri nella progettazione e costruzione di sistemi complessi, di una vocazione diffusa all’integrazione di parti e funzioni e della presenza in ambito accademico di eccellenza nei settori dei sistemi intelligenti integrati, come conseguenza di una lunga tradizione di ricerca che coniuga componenti tecnologiche e metodologiche di diverse discipline.

L’investimento complessivo per il periodo 2005-2009 è stato valutato pari a Euro 80.180.000,00, di cui Euro 27.180.000 immediatamente attivabili.

Le premesse di questo accordo sembrano buone, ma siamo agli inizi e si potrà giudicare solo con il tempo se queste si realizzeranno o resteranno solo intenzioni.

Inoltre, per lo sviluppo economico non ci si può limitare solo, diciamo così, ai settori tecnologicamente avanzati, ma si deve comprendere anche quelli più strettamente legati al patrimonio artistico, culturale e ambientale della nostra Regione per la quale il turismo rappresenta una risorsa molto importante. Ciò vale soprattutto per l’Università.

Università per la quale la più immediata esigenza è certamente quella dell’adeguamento del suo modello organizzativo, sia in relazione all’ormai avanzato processo di autonomia universitaria che alla peculiare caratteristica d’insediamento rispetto all’intera regione.

Tutto ciò deve portare ad un potenziamento della capacità di programmazione sia dell'attività di ricerca sia dell'offerta formativa rispetto alle potenzialità di sviluppo del territorio e alla capacità di invogliare investimenti e studenti anche non residenti nella nostra regione.

Si deve avviare una vera regionalizzazione dell'Ateneo, che permetta la costituzione di vere e proprie strutture universitarie decentrate e non più di soli poli didattici, in maniera che il rapporto tra attività didattica e di ricerca sia ricondotto a quell'equilibrio che è proprio dell'assetto universitario e che è unica garanzia della qualità del processo formativo.

Questo processo di decentramento, favorendo la crescita e l'insediamento di strutture di eccellenza, anche al di fuori del territorio genovese, in relazione con le dinamiche proprie dello sviluppo delle diverse realtà socio-economiche presenti sul territorio, può permettere di recuperare il divario oggi presente tra la programmazione dell'Ateneo e la domanda di formazione e di ricerca che proviene dal mondo del lavoro e dalla società, ed anche consentire all'Ateneo di sviluppare le opportune sinergie con le altre strutture pubbliche e private già insediate sul territorio.

Anche per gli EPR si porrà il problema della regionalizzazione.

Alcuni di loro, in particolar modo il CNR, sono ormai da anni “vittime” di un processo di ristrutturazione che, come nel caso dell’INFM ne ha visto addirittura la soppressione e l’integrazione nel CNR.

Questi processi hanno fino ad oggi tenuto poco in considerazione la necessità di una regionalizzazione che appare invece ineludibile.

La modifica dei loro modelli organizzativi avviene e avverrà a livello nazionale, ma l’intervento locale che si deve sostenere è di favorire le collaborazioni attraverso le diverse forme di aggregazione possibili, quali ad esempio i consorzi.

E’ necessario portare la ricerca pubblica, sia universitaria che degli EPR, ad avere un aumento significativo della capacità di interazione con le istituzioni locali e le forze sociali, rendendo stabili nel tempo queste relazioni, allo scopo di programmare l'attività in modo integrato con lo sviluppo del territorio.

E’ anche necessario impostare una diversa politica nella gestione delle risorse umane e strutturali, favorendo la crescita di strutture in cui venga superata la massa critica, sia in termini di competenze scientifiche, e per l’Ateneo aggiungerei didattiche, in termini di risorse umane, finanziarie e organizzative.

E’ indispensabile sviluppare una vera programmazione per il reclutamento che tenga conto delle possibilità che una maggior integrazione con le realtà produttive locali può aprire, favorendo anche quella mobilità, da e verso la ricerca privata, che costituisce in altri Paesi la radice di una maggiore crescita sociale ed economica.

Anche l’interazione con l’IIT, l’Istituto Italiano di Tecnologia, sarà indispensabile; se l’Università e gli EPR Liguri non avranno un ruolo determinante nell’IIT e analogamente nei progetti dell’Accordo di Programma Quadro, portando le loro competenze e professionalità, tutta l’operazione rischierà veramente di essere un fallimento i cui danni avranno ripercussioni non solo a livello nazionale, depauperato già di una consistente fetta di finanziamento a favore di questo nuovo soggetto, ma soprattutto delle realtà di ricerca liguri.

Dall’altra parte, se si vuole pensare all’IIT come ad un centro d’eccellenza, bisogna chiarire che l’eccellenza non è una condizione “a priori” ma è il prodotto di un diffuso livello di qualità medio-alta che, quando trova terreno fertile e finanziamenti adeguati, si esprime in qualcosa di eccezionale. E’ il terreno ligure quindi che dobbiamo rendere fertile e in questo il ruolo della Regione diventa fondamentale.

La Regione ha titolo e tutto l'interesse a forzare ed accelerare il processo ponendosi come "regista" per una nuova politica.

Tuttavia, vi è il bisogno di rivedere i modelli di interazione tra industria e ricerca pubblica adottati fino ad oggi dalla Regione che appaiono semplicistici.

Seguendo quanto fatto già nelle altre Regioni, partendo da una razionalizzazione dell’offerta di ricerca e di competenze, si possono così schematizzare gli obiettivi da perseguire:

  • realizzazione di un sistema relazionale che istituzionalizzi una rete di alleanze tra i soggetti reali del processo (imprese, università, EPR, Enti Locali), definendo ruoli e competenze;

  • coordinamento dei programmi e delle linee di finanziamento per favorire la concentrazione degli sforzi;

  • concentrazione delle misure su progetti ad alto contenuto scientifico aggregando i soggetti sugli stessi progetti;

  • definizione di linee strategiche e obiettivi di sviluppo aderenti sia alla domanda da parte delle imprese, sia alle competenze disponibili, nel contesto nazionale ed internazionale;

  • impegno per favorire il miglioramento qualitativo della domanda di innovazione da parte delle imprese, anche offrendo opportunità di innalzamento tecnologico, finalizzate e propedeutiche, ad una migliore interazione con il sistema ricerca;

  • integrazione programmatica dei flussi di finanziamento della ricerca industriale con quelli della ricerca esterna alle imprese al fine di far convergere obiettivi e linguaggi.

Vorrei sottolineare la differenza tra questo approccio agile e snello, su cui è facile intervenire, anche con successivi correttivi ove necessario, e le precedenti e spesso disastrose esperienze basate spesso sull’ipotesi della necessità di una onerosa sovrastruttura.

Si tratta di un terreno sul quale il Sindacato può e deve dare il suo contributo: favorire la crescita dimensionale delle imprese, incentivarne la progressiva ridislocazione su prodotti a più alta intensità di conoscenza, utilizzare gli strumenti esistenti, dai distretti industriali agli incubatori di impresa, dai parchi scientifici e tecnologici alle metodologie di quella che un tempo si chiamava programmazione negoziata.

Su questo versante il problema più grosso è quello della coerenza degli interventi, oltre che quello delle risorse necessarie per attuarli; non si tratta di una questione di alchimie istituzionali, quanto piuttosto di generalizzare e fare diventare interventi di sistema quello che generalmente è applicato molto raramente. Si tratta di interventi in generale non difficilissimi da concepire, che richiedono però un consistente sostegno politico di accompagnamento, specie se operanti sul versante delle politiche più strettamente industriali: è politicamente non facile sostenere, per fare solo un esempio, che gli interventi in favore degli incubatori di impresa andrebbero concentrati sulle sole imprese ad alto contenuto tecnologico. Molti appetiti, legittimi o meno, si scatenano su questi tipi di intervento specialmente da parte delle associazioni locali degli imprenditori che tendono a vedere ancora ogni intervento possibile in termini di sostegno diretto all’impresa più che in maniera sistemica. Ed è certamente un lavoro ancor meno facile in presenza di situazioni di crisi produttiva.

Per poterlo realizzare proponiamo di affiancare e di sostenere l’iniziativa legislativa su questo terreno con opportuni strumenti di governo del sistema e di regia al massimo livello politico. In particolare:

  • sarebbe auspicabile che le deleghe necessarie siano concentrate su di un solo assessorato, anche se questo passaggio implica la soluzione di delicate questioni di assetto istituzionale, in relazione soprattutto agli assessorati alle attività produttive ed alla formazione;

  • andrebbe istituita una sede permanente di confronto sulle politiche per l’innovazione tra Enti locali, istituzioni pubbliche di ricerca e formazione e forze sociali, eventualmente articolata su più tavoli tecnici, coordinati da una regia politica. Questa necessità non deriva da una particolare passione per tavoli più ampi e spesso fatalmente più generici, quanto dalla convinzione dell’opportunità di far emergere il contenuto sistemico dei vari interventi. Si tratta quindi di calibrarne con attenzione le caratteristiche, sia in relazione agli argomenti che su di essi andranno trattati, sia in relazione alle modalità della loro gestione;

  • si dovrebbero reperire le risorse necessarie. Si tratta evidentemente di un passaggio delicato perché rischia di essere interpretato in termini di sottrazione di risorse a scapito di altri interventi a ricaduta più immediatamente visibile. E’ chiaro infatti che tali risorse possono derivare o da risorse aggiuntive o dalla rimodulazione di interventi catalogabili sotto una pluralità di voci oggi utilizzate in maniera estremamente dispersiva e spesso scarsamente efficace;

  • dovrebbero essere individuati criteri di valutazione condivisi. La valutazione è evidentemente uno strumento di trasparenza del sistema, una sorta di atto dovuto quando si impegnano risorse pubbliche. E questo vale sia per il sistema pubblico, sia, anche se Confindustria tende troppo facilmente a dimenticarlo, per il sistema delle imprese. Ma qui non si tratta solo di trasparenza, si tratta di dotare il sistema di meccanismi che consentano di scegliere i migliori progetti non solo in relazione alla loro validità scientifica o tecnologica, ma anche in relazione alla loro maggiore o minore capacità di farsi strumento di sistema, di agire da accumulatore e moltiplicatore anche nei confronti di soggetti diversi da quelli ai quali il progetto è immediatamente rivolto: è chiaro che esiste una discrezionalità politica ineliminabile in valutazioni di questo genere, ma proprio per questo è necessario introdurre severi criteri di valutazione, non fosse altro per impedire processi degenerativi che tutti possiamo facilmente immaginare;

  • occorrerebbe evitare di riproporre la necessità del finanziamento a sportello per l’innovazione – che sono indizio evidente di un approccio subalterno e di corto respiro alla questione dell’innovazione del sistema produttivo, spesso vista sotto la lente deformante del sostegno diretto alle imprese;

  • bisognerebbe riuscire a concepire la questione dell’innovazione come un processo necessariamente di medio periodo sul quale bisogna investire ma dalla quale non è ragionevole attendere risultati nel brevissimo termine. Non c’è nulla di peggio dell’incertezza permanente sulle prospettive future per un settore come quello della ricerca che, necessariamente, programma la sua attività su tempi medi e lunghi.

E’ evidente che al soggetto promotore pubblico non possa spettare un ruolo di mera regolazione, ma che esso si debba fare carico di un ruolo assolutamente attivo in grado di indirizzare i processi e favorirne l’esito positivo, specialmente nella prospettiva media e lunga.

Non si deve infatti sottovalutare la complessità nella gestione quotidiana di un progetto di questo genere, non si deve ritenere compiuto il processo una volta assunta la decisione politica, una volta approvata un’apposita legislazione regionale ed un primo piano di attività. Infatti non credo si possa compiere un errore peggiore: il compito del soggetto pubblico è essenziale, proprio nella quotidianità dell’azione di spinta, di sostegno, di convincimento a costruire e condividere un quadro di programmazione che è estraneo alla cultura ed ai comportamenti della maggior parte dei soggetti coinvolti: sia il mondo della ricerca pubblica sia l’impresa (ma solo a partire da una certa dimensione) sono abituati a programmare la propria attività, ma con strumenti e per fini sostanzialmente diversi e prevalentemente interni.

Dovrebbe essere invece sufficientemente chiaro soprattutto al livello politico e comunque decisionale che la difficoltà nel progettare e realizzare un modello relazionale di questa natura non sta prevalentemente nel problema del reperimento delle risorse necessarie e nella gestione quotidiana dei singoli progetti, problema che in ogni caso esiste e non può essere sottovalutato, quanto nella capacità e nella costante tensione a far emergere dalla pluralità dei progetti la percezione collettiva dell’unitarietà del progetto.
Credo che se dalla discussione odierna verranno anche risposte a queste concrete questioni, allora certamente il tempo che abbiamo dedicato alla sua preparazione sarà stato speso bene. Grazie.