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Se la conoscenza è il vero fattore competitivo

Per le società più dinamiche è una convinzione acquisita da tempo e confermata dai dati. È a fronte di questo diffuso consenso internazionale, almeno di indirizzo, che è necessario giustapporre i risultati problematici ottenuti dall’economia italiana.

30/03/2018
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Prof. Leonello Tronti

Il lavoro cambia e non si può evitare di tenerne conto. Se il cambiamento è rischioso, ben più rischiosa è la tentazione di fermarlo. Nelle economie moderne l’elemento strategico fondamentale, il vero fattore competitivo non è più la dotazione di risorse, ma la capacità di utilizzarle in modo intelligente e creativo. Che possiamo sinteticamente definire (un po’ riduttivamente) con il termine conoscenza – in un’accezione tutt’altro che teorica. Nell’odierno mondo globalizzato si affermano i Paesi che più si rivelano dotati di conoscenza, perché dimostrano di saper gestire le proprie risorse meglio degli altri.

Diventa dunque necessario per tutti – anche per il sindacato – adottare la prospettiva della creazione, dell’acquisizione e della trasmissione della conoscenza – ovvero della ricerca e dell’apprendimento – come fatti di rilevanza economica cruciale, e assumere quindi della conoscenza una visione processuale, effettuale e sociale: quella dell’apprendimento come processo collettivo, che per esempio individua la capacità del lavoratore di applicare, in associazione con altri, la propria intelligenza, la propria creatività e i risultati della ricerca scientifica al conseguimento di obiettivi socialmente desiderabili a livello di gruppo, reparto, impresa, territorio, Paese.

L’attenzione internazionale al tema dell’accumulazione e della valorizzazione del capitale umano segnala che il riconoscimento della centralità della conoscenza ai fini del progresso sociale ed economico si è rafforzato al punto che le prospettive di sviluppo delle economie avanzate vengono ormai collocate quasi esclusivamente nell’ambito dell’economia della conoscenza. Per le società e le economie più dinamiche, come anche per le agenzie sovranazionali (ma ancora troppo poco per la politica nazionale e locale, così come per il diritto del lavoro), la convinzione che la conoscenza sia diventata il vero fattore competitivo è ormai acquisita da tempo e confermata dai dati. È quindi a fronte di questo diffuso consenso internazionale, almeno di indirizzo, che è necessario giustapporre i risultati problematici ottenuti dall’economia italiana, che questo indirizzo ha sinora mostrato di tenere in considerazione modesta.

La spettacolare e pervasiva diffusione delle tecnologie consente ovunque di creare, valutare, scambiare e comunicare informazione in misura assai maggiore di ieri, in tempi e con costi prima semplicemente impensabili. Ma l’informazione non è di per sé conoscenza e non va in alcun modo confusa con essa. Nella piramide Dikw (data, information, knowledge, wisdom), su livelli crescenti di complessità, e quindi di relativa scarsità, si collocano anzitutto il dato, poi l’informazione, solo dopo, molto più in alto, la conoscenza, e ancora più in alto la sapienza. Quest’ultima si può definire come la capacità di combinare e utilizzare le diverse conoscenze (e quindi, attraverso di esse, le diverse risorse) ai fini del progresso materiale, sociale ed etico degli individui e della società.

Non è difficile comprendere quanto questo quarto grado della piramide sia arduo da raggiungere nelle società odierne, dominate da interessi economici sempre più forti ed egoistici, e da visioni sempre più spesso di breve periodo. Tra l’altro, anche perché la strada politicamente impervia che porta alla sapienza è ostacolata anche dall’insorgenza crescente di fenomeni di entropia informativa, ovvero di diffusione di una mole senza precedenti di informazione di dubbia qualità e priva di strumenti di decodifica, che quindi non perviene mai davvero al livello della conoscenza, ma la simula, portando opinione pubblica ed elettori a valutare positivamente scelte che non recano alla società alcun progresso, né materiale né sociale né morale. Oppure – cosa ancor più grave – la conoscenza viene creata e gestita occultamente (dalle forze che possono disporre dell’informazione necessaria a produrla) a fini di parte, senza alcuna sapienza, con l’unico scopo di arricchire e promuovere qualcuno o di danneggiare qualcun altro.

Nello schema Dikw l’apprendimento (umano, ma oggi sempre più spesso anche automatico) occupa due snodi cruciali, che rendono piena rappresentazione della sua importanza: anzitutto la trasformazione dell’informazione in conoscenza e, quindi, l’ancor più fondamentale e difficile trasformazione della conoscenza in sapienza (o nel suo opposto). Ciò implica che la conoscenza vada ripensata nell’ambito di una visione dinamica e operativa, oltre che sociale e politica, a partire dalla sua effettualità: l’informazione assume valore in quanto l’apprendimento può trasformarla in conoscenza, così come anche la conoscenza non ha tanto valore in sé, ma soprattutto in quanto può fondare, attraverso l’apprendimento, la sapienza, che sola produce sulla realtà effetti desiderabili, ovvero produrre risultati negativi.

Dunque, oggi l’informazione, disponibile a costi e in quantità prima impensabili, rende possibili (ma non per questo automaticamente acquisiti) sviluppi formidabili della conoscenza in tutti i campi dell’azione umana, e segnatamente nel lavoro, rendendola per questo il vero e concreto fondamento, la vera materia prima del progresso sociale ed economico. Ma questa constatazione non vela il fatto che la piena partecipazione all’economia moderna, lo sviluppo e il progresso, la buona occupazione, la qualità del lavoro ecc. non dipendono soltanto dalla capacità dei sistemi di istruzione e ricerca di creare conoscenza; ma, in misura altrettanto ampia, dalla capacità di politici, imprenditori, lavoratori e consumatori di apprendere ad applicare con sapienza la conoscenza al lavoro e all’economia, ovvero alla produzione, distribuzione e consumo di beni e servizi di mercato.

L’innovazione organizzativa, in qualunque versione la si declini (produzione snella, lavoro 4.0, Wcm, sharing economy ecc.), attribuisce oggi il ruolo centrale alla produzione di informazione e alla gestione della conoscenza all’interno del processo produttivo, al fine di innescare processi di apprendimento individuali, collettivi e anche automatici, secondo la logica della learning organization (aumentare continuamente, attraverso l’apprendimento, la capacità dei lavoratori di raggiungere i risultati desiderati ed espandere continuamente la capacità dell’impresa di creare il proprio futuro). Ma creazione, condivisione e utilizzazione della conoscenza nell’impresa e tra le imprese, per migliorare processi, prodotti e organizzazione, comportano spesso frizioni e costi di transazione elevati, che è possibile superare solo se sono diffusi tra i lavoratori il consenso e la motivazione necessari a trasformare la conoscenza in competenza, il lavoro in capacità di miglioramento.

Per costruire il consenso e la motivazione è necessario che la conoscenza possa essere considerata e gestita dai lavoratori come un bene comune. È questo il tema nascosto (ma non troppo), tanto dell’attuale stagione contrattuale quanto del dibattito sulla riforma del sistema di relazioni industriali, aperto dal sindacato confederale con la piattaforma unitaria del 25 gennaio 2016 e giunto a un avanzamento di notevole rilievo con la firma dell’accordo interconfederale tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria del 9 marzo scorso.

I nuovi contratti e le nuove relazioni industriali devono dare per acquisito il principio che, per ridurre le tensioni e i costi di gestione e piena utilizzazione della conoscenza, i lavoratori debbono potersi identificare come appartenenti a una comunità, più precisamente a una “comunità di conoscenza”. In generale infatti (come già aveva pienamente compreso negli anni cinquanta del secolo scorso l’imprenditore Adriano Olivetti), lo sviluppo dell’innovazione (che è frutto dell’applicazione della conoscenza) richiede che i lavoratori si identifichino come appartenenti a una comunità e riconoscano la conoscenza come un patrimonio comune, da accrescere e gestire assieme all’impresa: un patrimonio cui tutti possano attingere e al quale tutti siano chiamati a contribuire. E riconoscano quindi l’innovazione che ne deriva come il frutto di quel comune patrimonio.

È questo il significato profondo, questo il vero obiettivo di ogni innovazione organizzativa, di ogni modello avanzato di gestione delle “risorse umane” e delle relazioni industriali. Il ruolo centrale della gestione della conoscenza come bene comune nel favorire l’innovazione comporta che i lavoratori assumano una nuova attitudine cruciale, una specifica competenza che si può definire con il termine di partecipazione cognitiva, ovvero “la volontà e la capacità di acquisire, condividere e utilizzare la conoscenza (propria e dell’organizzazione) per migliorare i prodotti e i processi produttivi e organizzativi” (mi si perdoni l’autocitazione). Il problema fondamentale dell’innovazione organizzativa è per l’appunto quello di rafforzare la partecipazione cognitiva di dirigenti e lavoratori, di farne il cardine dello sviluppo dell’impresa.

Ma è indubbio che il primo oggetto della partecipazione cognitiva non può che essere la qualità dei luoghi di lavoro (salute, sicurezza, ergonomia, creatività, relazioni interpersonali), così come il primo requisito non può che essere la definizione dei diritti che attengono all’esercizio della stessa. Per questo, se al fine della diffusione della partecipazione cognitiva si dimostra utile la diffusione del welfare aziendale e del diritto alla formazione, ancor più si rivela indispensabile il varo di sperimentazioni su larga scala di partecipazione gestionale, organizzativa e finanziaria che predispongano il quadro esperienziale su cui diventi possibile per il Parlamento fondare una normativa che dia finalmente attuazione all’articolo 46 della Costituzione.

Leonello Tronti è docente di Economia e politica del lavoro all’Università Roma Tre


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