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Vuoti di apprendimento e abbandono scolastico l'ipoteca Dad sul Paese

C'è ormai una evidenza convincente, in Europa e in Italia, che mostra che chiusure e didattica a distanza hanno creato dei vuoti negli apprendimenti

25/01/2021
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Il Messaggero

Fra le diverse emergenze che il nostro Paese si trova a dover affrontare in questi drammatici mesi ce n'è una particolarmente preoccupante. Preoccupante perché subdola: sappiamo che c'è, ma non la vediamo; e questo ci può spingere a non affrontarla per tempo e con la dovuta energia. Si tratta dell'emergenza dovuta ai vuoti che si sono determinati negli apprendimenti di tanti studenti italiani in seguito alle chiusure delle scuole (particolarmente lunghe in Italia) e all'introduzione della didattica a distanza. Si discute molto, e questo è comprensibile, del presente e del futuro più immediato: e cioè della difficile gestione delle scuole in presenza di contagi ancora molto forti; della modalità di riorganizzazione delle lezioni, e dei servizi collegati alla mobilità degli studenti. Si discute molto della capacità del mondo della scuola italiano di affrontare le criticità di questa pandemia, dell'impegno dei docenti e dei dirigenti scolastici (che si ha l'impressione che sia comunque notevole, anche se naturalmente diverso da caso a caso). Temi complessi, che meritano attenzione. Ma forse si discute troppo poco di quello che è assai probabile accadrà in futuro: delle maggiori difficoltà che una parte non piccola delle nuove generazioni si troverà ad affrontare nel suo percorso di studi e poi nella vita, nel lavoro.
LE LACUNEC'è ormai una evidenza convincente, in Europa e in Italia, che mostra che chiusure e didattica a distanza hanno creato dei vuoti negli apprendimenti. Istituzioni come la Fondazione Agnelli, studiosi come la sociologa Chiara Saraceno stanno provando a porre il tema all'attenzione del Paese: perché se non vi si porrà rimedio, essi produrranno, a cascata, una maggiore difficoltà ad apprendere nei prossimi anni; potrebbero determinare un aumento degli abbandoni scolastici o comunque l'uscita dal mondo della scuola con un bagaglio di conoscenze e di capacità inadeguato per frequentare con successo l'università e per affermarsi nel mondo del lavoro. 
Questo fenomeno riguarda, in misura molto variabile, un po' tutti gli studenti italiani. Ma appare certo che esso stia riguardando in modo particolarmente intenso gli studenti più deboli. In primo luogo, quelli con disabilità. Poi, quelli che hanno avuto e stanno avendo difficoltà di tipo tecnico nello studio a distanza, ad esempio per mancanza di connessioni: l'Istat indica che nel 2019 la percentuale di ragazzi fra i 6 e i 17 anni che viveva in famiglie senza disponibilità di connessioni informatiche era del 7,5% al Nord e del 19% al Sud; particolarmente nelle aree interne. O per le stesse dotazioni di computer: è intuitivo immaginare le difficoltà di un ragazzo campano che da dieci mesi segue le lezioni sul suo telefonino. Ancora, quelli che vivono in case più anguste con meno spazi disponibili, e soprattutto con meno libri: che provengono cioè da famiglie con un basso livello di istruzione, e quindi poco capaci di aiutare i figli e le figlie nello studio. Quindi, un processo selettivo: che rischia di mettere ancora di più ai margini della nostra società le componenti più deboli. E che non arriva nel migliore dei mondi possibili, tutt'altro. Il nostro Paese, più degli altri, è attraversato da sensibili e crescenti fenomeni di povertà educativa. Prima della pandemia l'Italia si caratterizzava per un elevato abbandono scolastico: nel 2019 c'erano 560.000 giovani fra 18 e 24 anni che non avevano il diploma e che non studiavano più: quasi 90.000 in Sicilia e Campania, ma anche quasi 80.000 in Lombardia (con una forte quota di immigrati); un numero che stava scendendo molto lentamente. E gli apprendimenti degli studenti, per quanto misurabili dalle rilevazioni Invalsi o Pisa, mostravano la presenza di ampie fasce di giovani con livelli particolarmente modesti in italiano e matematica. Tutto questo rischia di peggiorare. Quanto non sappiamo. Ma c'è la possibilità che possa peggiorare tanto; che si determini, con le parole del Direttore della Fondazione Agnelli, «il più grande disastro pedagogico del dopoguerra». 
EMERGENZALa questione è all'attenzione in tutti i paesi europei. Tantissimi anche in Italia si stanno dando da fare per contenerlo. Nelle scuole, grazie ai dirigenti e ai docenti più attivi. E fuori dalle scuole, grazie ai servizi sociali e all'azione del Terzo Settore; ad esempio, con la meritoria azione di soggetti come Con i bambini, guidata dal maestro di strada ed ex sottosegretario Marco Rossi Doria. Ma il rischio che questo non basti è troppo alto. Il rischio per l'equità della nostra società: perché colpisce bambini e ragazzi sin dall'inizio delle loro vite, senza che essi ne abbiano alcuna responsabilità, e li condanna ad una vita con molte meno opportunità degli altri. Il rischio per la nostra stessa economia, perché solo con forze di lavoro molto qualificate potremo svolgere nei prossimi decenni un ruolo fra i Paesi più importanti del mondo. Pare necessaria un'azione di sistema, nazionale, che sia definita presto (lo si sarebbe in realtà dovuto fare già con l'estate) e poi sia messa in atto su grande scala per il tempo necessario. Sarà bene discuterne in profondità contenuti e modalità, nient'affatto ovvi (lavoro pomeridiano, lavoro estivo, docenti supplementari, lavoro personalizzato/per piccoli gruppi?), con gli esperti e il mondo della scuola. Ma preliminarmente l'emergenza va riconosciuta e portata fra le priorità della politica.
Il governo ha da poco trasmesso alle Camere il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza, un documento con luci e ombre, ma soprattutto con un nome orribile. Ne sarebbero più chiari messaggi e finalità se riprendesse il nome europeo dell'Iniziativa per la nuova generazione. Quale iniziativa per la nuova generazione è più prioritaria di quella che cerca di contrastare divari e problemi già chiaramente emersi, un possibile disastro che si sta concretizzando sotto i nostri occhi? Perché allora non completare la linea d'azione Accesso all'istruzione e riduzione dei divari territoriali, già prevista nel piano con l'indicazione precisa della sua immediata attivazione proprio per questi fini? Perché non raccontare agli italiani che ci occupiamo da subito del futuro della nuova generazione intervenendo sui giovani in maggiore difficoltà? E soprattutto perché non farlo?