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"Voglio una Università digital"

Manfredi: la sfida per preparare i giovani alle super-professioni del XXI secolo

12/02/2020
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La Stampa

gabriele beccaria
È facile, perfino scontato, sognare di fare l'astronauta. Ma c'è chi sogna altri sogni. In compagnia di algoritmi e reti neurali, cullandosi con server e androidi.
Così, tra desiderio e immaginazione, si sogna di fare i creativi scatenati con le stampanti 3D, di trasformarsi in sviluppatori seriali di app, di diventare specialisti nel labirinto dell'Internet delle Cose. E poi di buttarsi nel marketing digitale, nella cybersecurity, nell'analisi e nella manipolazione dei Big Data. E, naturalmente, di essere tra i pionieri della General Artificial Intelligence, quando i cervelli sintetici inizieranno a imitarci consapevolmente.
Le professioni - ormai lo sappiamo - non saranno mai più le stesse. Molte muoiono, altre sbocciano in forme continuamente mutanti. Di sicuro si stanno digitalizzando, e con rapidità, come accade per ogni altro aspetto della realtà. «Adesso ci sono due temi in primo piano - osserva Gaetano Manfredi, ministro della Ricerca, oltre che professore di Tecnica delle Costruzioni all'Università di Napoli "Federico II", e già presidente della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane -. Da una parte i nuovi profili emergenti, come, per esempio, i "data scientist," e dall'altra parte l'integrazione dei profili più tradizionali con le nuove competenze digitali trasversali». Nell'uno e nell'altro caso - aggiunge - una sfida accomuna le due linee evolutive: «E' la sfida formativa. L'Università deve colmare il gap tra la domanda di competenze e la disponibilità dell'offerta».
Al momento il gap esiste. Eccome. Il ministro lo definisce «mismatch», alludendo all'assenza di sincronia tra accademia e universo del lavoro. Ed ecco la sua idea, che sta prendendo forma: «Lavorare con i ministeri a un piano che consenta di affrontare il problema». All'inevitabile domanda «come?» la risposta evoca due strade: «La necessità di investimenti» e «un reale aggiornamento delle proposte formative». Non solo nei settori della scienza e dell'high tech, come appare ovvio, ma nel mondo umanistico». «Dobbiamo spingere - dice Manfredi - in direzione di una contaminazione: non a caso, oggi, si parla di "Digital Humanities"».
Storici e filosofi, prima di tutto, e poi altre figure che diventano «di frontiera», sospese tra saperi tradizionali e gestione avanzata dei dati, tra psicologia e linguaggi interattivi. Le nuove professioni, appunto, si contaminano di competenze diversissime e - almeno queste sono le intenzioni - dovrebbero caratterizzarsi per originalità e creatività spinta. Dimensione umanistica e dimensione tecnico-scientifica si mettono quindi a dialogare, quasi evocando perdute fascinazioni rinascimentali. Di sicuro - sottolinea il ministro - «le professioni digitali sono sempre più richieste. Non soltanto dalle imprese, anche dalla pubblica amministrazione».
L'innovazione richiede cervelli e l'attenzione ai giovani - promette Manfredi - è l'altro punto forte dei suoi piani, accanto alla digitalizzazione dell'università. Così l'obiettivo è dichiarato: «Stabilizzare 1600 ricercatori di tipo B». Che significa che alla fine del loro percorso, un triennio, diventeranno professori associati, senza ulteriori concorsi, come è avvenuto finora. E Manfredi spera che la decisione non solo riduca l'annoso problema del precariato universitario, ma contribuisca anche a far rientrare un po' di talenti dall'estero. Finora - è noto - i programmi per tentare di farli tornare sono spesso naufragati tra eccessi burocratici e sorde resistenze dell'università stessa. «Vogliamo puntare sempre di più sulla qualità del reclutamento e - promette il ministro - rivedere anche le regole dei concorsi». Ci riuscirà? Di sicuro - ammette - «oggi siamo di fronte a una situazione a macchia di leopardo, tra successi e criticità».
Investire nelle infrastrutture e semplificare le norme: Manfredi riconosce che bisogna svecchiare l'accademia, il prima possibile. «Ci sono troppi bizantinismi rispetto alle realtà internazionali. Abbiamo necessità di una maggiore osmosi». Ma finché si resterà incollati al risicato 1.2% del pil per la ricerca i buoni propositi sono destinati a restare tali. Ecco perché, dopo le clamorose dimissioni di Lorenzo Fioramonti a causa del mancato stanziamento di 3 miliardi per scuola e università, il neoministro intende strappare più fondi: «Già a partire dalla prossima Finanziaria. Faremo crescere l'investimento pubblico e dobbiamo stimolare quello privato: con incentivi appropriati e un occhio attento alle aziende ad alto valore tecnologico».
Alla base delle reti tra lavoro e digitalizzazione, tra università e imprese, tra competizione e sviluppo c'è sempre - invocata e trascurata - la ricerca. «Un'Agenzia potrebbe essere utile per coordinarla - conclude -. Sottolineando che la ricerca non può più essere nazionale, ma rientra nell'ambito di una logica globale». —ore di Tecnica delle Costruzion