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Valeria Pinto: «Così la valutazione nega la libertà di pensiero nella ricerca»

Intervista. La filosofa Valeria Pinto, autrice del libro "Valutare e punire", è tra le promotrici dell'appello "Disintossichiamoci: sapere per il futuro". "Questo sistema ha concentrato finanziamenti nelle mani di pochissime unità di ricerca. La valutazione è diventata un vero e proprio mercato"

18/02/2020
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il manifesto

Roberto Ciccarelli

Nel libro Valutare e punire (Cronopio) Valeria Pinto, filosofa e docente alla Federico II di Napoli, ha sostenuto che la valutazione non riguarda solo l’università e la scuola, ma il governo neoliberale dell’essere umano. Oggi è una delle promotrici di «Disintossichiamoci, sapere per il futuro» apparso sul sito Roars.it. Le abbiamo chiesto gli obiettivi dell’appello. «Un incontro a giugno a Roma – risponde – in coincidenza con la riunione dei ministri europei dell’istruzione che ogni due anni si vedono per fare il punto sul processo di Bologna che ha consolidato l’idea della conoscenza come bene di mercato in Europa, come avviene in tutte le società capitaliste. E vogliamo verificare se esiste un modo anche legale per mettere a nudo e intervenire sulla scatola nera degli algoritmi che governano questo sistema. La valutazione contrasta con l’idea della libertà di ricerca».

In che modo la valutazione ha cambiato l’università dalla riforma Gelmini a oggi?
Il principio della concorrenza muove tutto, nella didattica e nella ricerca. È collegato all’idea dell’«eccellenza», termine truffaldino che significa in realtà «monopolio». Questo sistema ha concentrato i finanziamenti nelle mani di pochissime unità di ricerca. La valutazione è diventata un vero e proprio mercato: la distribuzione dei fondi cosiddetti «premiali» si traduce anche nel guadagno di singoli. Stanno emergendo i primi casi, ma è la tendenza che si affermerà prossimamente. Ormai la ricerca è concepita come un lavoro a progetto e deve produrre risultati spendibili sul mercato. Tuttavia il risultato di una ricerca non può essere conosciuto in anticipo, né rispecchiare un risultato prestabilito. Bisogna uscire dalla logica dell’innovazione e entrare in quella del nuovo.

Oggi si parla di più investimenti a scuola e università ma quasi mai della valutazione, cioè del modo diseguale in cui tali investimenti sono distribuiti che aggrava le diseguaglianze esistenti. Perché la valutazione sembra non essere un problema? Lo è mai stato?
C’è molta più sensibilità nella scuola, a partire dal problema dei quiz Invalsi, che nell’università. Questo accade perché non è mai stata realmente compresa la funzione della valutazione: il cambiamento forzato della finalità di scuola e università. È stato realizzato un colpo di stato semantico, parole come «autonomia» o «modernizzazione» sono state trasfigurate in un progetto restaurativo. Si è detto che la valutazione è la risposta al baronato, mentre è un rafforzamento di questo potere. Chi critica gli effetti di questa restaurazione viene tacciato di corporativismo, mentre è vero il contrario: oggi chi gestisce la valutazione difende lo status quo, non vuole liberare l’università.

Perché il mondo universitario si è rapidamente assuefatto alla nuova disciplina?
Perché il potere esistente è stato consolidato facendo leva sulla falsa oggettività che ammanta la valutazione e si è verticalizzato al punto da assumere funzioni di governo. Lo si comprende dalla trasformazione del ruolo dei rettori in questi anni. In più la valutazione fa leva su meccanismi psicologici: è una lotta alimentata sul bisogno antico di essere riconosciuti.

Il vostro appello scuoterà il conformismo e la rassegnazione dominante?
L’appello non è il fine, ma lo strumento per ritrovarsi e programmare una serie di azioni. Con Mark Fisher sappiamo che la prima cosa da superare è lo stato d’animo dell’impotenza, del non c’è alternativa. Questo è possibile da molteplici punti di vista, non solo tecnici o professionali. Si può superare l’infelicità prodotta e fare emergere la critica di questo regime tossico.