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Uno sguardo oltre la “meritocrazia”

Parlano le carrozze ferroviarie. Un tema per la “futura classe dirigente”

23/08/2014
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Insegnare

di Paolo Citran

Chi se la ricorda ancora la faccenda delle carrozze ferroviarie? Era il titolo di un tema proposto a un ragazzino del Mugello candidato privatista agli esami di terza media, di cui si parlava nella Lettera a una professoressa.

In realtà non era poi una traccia così mal ideata, né erroneamente tarata, in funzione del materiale umano che s’intendeva selezionare, con una scrematura che il corso successivo degli studi avrebbe ulteriormente provveduto a liberare dagli scarti. Le carrozze ferroviarie avrebbero potuto parlare di paesi sconosciuti, di ambienti ignoti, di un’umanità variegata, di panorami archeologici grandiosi. Avrebbero potuto narrare della marcia su Roma: loro c’erano, e c’era anche il Duce, c’erano gerarchi e militanti, su quelle carrozze, per giungere a Roma anche senza bisogno di marciare. Esse avrebbero potuto parlare di gente-bene, signori in doppiopetto e signore charmantes, come anche di tradotte di minatori-a-rischio-morte-da-grisou e di militari a rischio Schrapnell; di generali e di comandi, di deportati in campi di concentramento, di vite vissute, di vite sprecate; di gente normale con i suoi affanni e le sue speranze, le sue fedi ed i suoi scoramenti. Erano carrozze di prima, di seconda e di terza classe (nel dopoguerra poi ricondotte a due sole classi), le prime con sedili di  velluto rosso fiammante e poggiatesta di tessuto bianco, le seconde di stoffa  sul marroncino, le terze – direttamente sperimentate da me, studente pendolare - di duro legno, lucidissimo, piallato da falegnami come adesso non ce ne sono più: treni di pendolari, treni di migranti con le proverbiali borse di cartone, che almeno non rischiavano la pelle in stive, stipati all’inverosimile ed avvelenati da miasmi chimici, come oggi accade  con gli occupanti dei barconi della disperazione che salpano dal Nord-Africa.

Non era dunque così stupido quel tema: eravamo un po’ stupidi noi, borghesi della stessa generazione dei ragazzi di Barbiana, che sapevamo brillantemente sciorinare evidenti banalità. Noi privilegiati che frequentavamo la scuola media (ex ginnasio inferiore) avendo superato gli esami di ammissione, anche grazie alle rituali lezioni private a pagamento, sovente impartite da quello stesso insegnante di classe delle elementari, che si faceva assegnare la quinta per rimpinguare un po’ con il ricavato della preparazione agli esami il suo non debordante portafoglio.
I ragazzi di Barbiana scrivevano meno e meno bene di noi, ma avrebbero avuto da dire più di quanto noi avessimo effettivamente da dire.

Quando mancano le parole: deficit produce deficit

Questo era per loro il punto cruciale: il deficit socio-culturale - e particolarmente il deficit linguistico - che non permetteva loro di vergare su un foglio protocollo neanche quelle quattro ovvietà che noi eravamo stati addestrati a produrre; questo determinava inesorabilmente un deficit cumulativo, un deficit che determinava altro deficit. Anche se tu non hai un’esperienza, puoi usare una parola vuota e sulla base di questa impari a usarne una seconda e a partire dalla seconda una terza, e così via; se un’esperienza magari ce l’hai, ma non hai quella parola, non quagli nulla, non associ alla prima una seconda parola e men che meno una terza. Questo all’incirca è il deficit cumulativo.

Se ho esperienze acquisisco conoscenze, se  ho conoscenze acquisisco anche parole, e queste a loro volta moltiplicano se stesse, moltiplicano le conoscenze e moltiplicano le esperienze, in una rete di percezioni, emozioni, cognizioni, espressioni linguistiche. Un linguaggio povero produce linguaggio povero, pensiero povero, esperienza povera; pensiero povero produce a sua volta povertà linguistica, e così via, cumulativamente. I nuovi svantaggiati, che sono spesso gli altri giunti presso di noi dal Sud del mondo, hanno bisogno di più stimoli, di più conoscenze, di più esperienze, di possibilità di vivere e sperimentare un linguaggio ricco, articolato, corretto, per godere dell’accesso ad una cittadinanza culturale piena ed efficace.

I limiti di un’esperienza didattica

Nei due scorsi anni ho avuto modo di fare un po’ di badantato (e possibilmente anche qualcosa di più) in un doposcuola organizzato a supporto di bambini immigrati. In una situazione di questo tipo, mi sono con altri trovato a gestire occasioni i cui esiti sono apparsi sovente piuttosto deludenti sul piano degli apprendimenti. I nostri piccoli kosovari non erano troppo interessati a primeggiare dal punto di vista scolastico; e la bimba nigeriana potenzialmente super, ma eccessivamente fiduciosa di sé, rischia batoste fuor di misura, oltre che per la sua particolare condizione, anche perché la differenza nella competenza linguistica c’è e se il suo frumento espressivo non verrà curato, la gramigna prolificherà.

Il discorso, con varianti individuali e differenti esperienze vissute - spesso tragiche - da questi minori stranieri, immigrati, richiedenti asilo, profughi, ma anche nati in Italia, vale per tutte e tutti loro.
C’è la preadolescente Down, proveniente da terre dove c’è guerra guerreggiata, che non era mai andata a scuola, la quale all’inizio non apriva bocca e non alzava gli occhi, e adesso non vorrebbe mai andarsene dal doposcuola quando tutti si sono già defilati. Basta accontentarsi di ricevere da lei un bacio o un sorriso? O vale la pena di chiederle che scriva qualche parola, magari da destra a sinistra e senza che distingua le lettere, rimanendo nella grafia a livello strettamente globalistico? Lei vuole rifare per l’ennesima volta il suo puzzle preferito. Certo, è meglio di niente, però … È diventata bravissima  in questo. Ma … poi?

Al rientro dalle vacanze, mi è venuta incontro con un sorriso smagliante sulla sua bicicletta nuova, ma soprattutto con un paio di occhiali di  colore azzurro brillante, che probabilmente le permettevano di vedere il mondo così bene come mai prima. In tutti i modi mi ha fatto notare la novità e mi ha pressoché costretto a fare lo spelling come con suo grande divertimento avevo fatto l’anno prima insegnandole a nominare i colori e qualche altro vocabolo: az-zur-ro, oc-chia-li, io ripetutatemente scandivo, e lei ripeteva mostrando raggiante l’intera arcata dentaria. Ha fatto progressi? Sì, in tutti i campi. Ma che ne sarà di lei?

Ha senso parlare di “merito”?

Ci si può accontentare? Quanta strada deve ancora percorrere questa ragazzina  per acquisire un minimo di autonomia e di capacità linguistiche e cognitive? «È inutile riempirsi la bocca della parola  “merito” - scrive un parlamentare emergente abbastanza atipico -. Perché il merito nasce dalla possibilità di essere costruito, è un fatto relazionale, dipende dal contesto, dal punto di partenza. Senza pari opportunità di partenza si finisce solo con il premiare chi c’è già, chi è già in prima fila, o al massimo in seconda. Degli altri si perdono le tracce» (Giuseppe Civati, Qualcuno ci giudicherà. La sfida per il cambiamento dell’Italia, Einaudi, Torino 2014).

Questo discorso vale inesorabilemente per tutti questi casi di italiani potenziali. Penso anche a quei due nerissimi bimbi francofoni sveglissimi e tutto-nervi, che ti si siedono sulle ginocchia e ti baciano e poi scattano via come ghepardi, riservando gli ultimi dieci minuti a farti il favore di eseguire i compiti assegnati dalla maestra, dopo averti simpaticamente fatto dannare l’intero pomeriggio.  E dai piccoli vivacissimi kurdini di diverse provenienze statuali, cosa possiamo sperare di ottenere? Si riuscirà mai a far loro assimilare l’idea che leggere o scrivere per qualche minuto in più potrebbe in ultima istanza costituire per loro un vantaggio?

Qualche goccia nel mare

Sarà mai possibile sensibilizzare le famiglie circa il valore da assegnare alle competenze cognitive, a quelle linguistiche ed a quelle nella letto-scrittura?
Puoi far loro il doposcuola, puoi dar loro un po’ di affetto, distribuire le Golia, offrire talvolta la Coca Cola, distribuire tra loro agognati evidenziatori. Puoi forse insegnar loro a sbagliare qualche doppia in meno… O è meglio, data la bella giornata, farli sfogare un po’ e lasciarli giocare a calcio?

Quello che fai per loro è una goccia nel mare. A volte ti prende l’avvilimento, ti rendi conto che bisognerebbe fare di più. Che ci vorrebbe un rapporto adulti/bambini di uno a uno. Che c’è di mezzo una questione di mentalità/cultura che li fa sottovalutare lo studio. Che la base linguistica di partenza è un handicap quasi insuperabile.

Riferendosi  ad un contesto anglofono, assimilabile peraltro a quello italiano,  Tullio De Mauro ("Piccoli alloglotti crescono", in Internazionale, n.1057/2014, p.86) scrive: ”Impegno di insegnanti e discreti risultati dei test scolastici di profitto non bastano a garantire un buon livello all’intera popolazione”: “le scuole si scontrano con le ondate migratorie” e “specie le primarie, si affollano di bambine e bambini immigrati”. Così un considerevole numero di classi è “sovradimensionato” e “rischiano di pagarne le conseguenze gli stessi alunni immigrati”, presenti in alta percentuale in ciascuna classe scolastica. “Il risultato è che più d’un milione e duecentomila alunni non parlano inglese come prima lingua e stentano”.

In Italia le cose non vanno molto diversamente. Gli allievi socialmente avvantaggiati sono in grado di rimediare ai difetti del sistema formativo ed i più danneggiati sono oggi proprio gli immigrati e i figli di immigrati, i quali in famiglia non godono di un ambiente linguistico ricco, articolato, glottogeno, funzionale alle esigenze del contesto italofono.

Fatti e dubbi qui descritti mettono in luce l’intrinseca problematicità che caratterizza l’educazione e la riflessione sull’educazione e quindi l’indisponibilità di ricette o pacchetti formativi capaci d’indicare infallibilmente vuoi le mete, vuoi le strade per perseguirle. Il che non significa aprioristico rifiuto di strumenti utili circa un possibile lavoro didattico, in assoluto non garantito né in relazione ai fini, né in relazione ai mezzi.


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