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Università, tagli pericolosi

Michele Ciliberto

29/07/2014
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l'Unità

SONO FRA QUELLI CHE GUARDANO CON INTERESSE E ATTENZIONE ALL’ESPERIENZA del governo Renzi. E ho guardato con curiosità anche ai propositi del ministro Madia sulla Pubblica amministrazione. Conosco però da molto tempo Il mondo dell’Università e vorrei esprimere il mio meditato dissenso su alcuni punti che mi appaiono importanti. Faccio due premesse. La prima: so bene che il mondo universitario è sotto attacco da tempo. Se ha goduto in Parlamento di una particolare considerazione, questo atteggiamento appartiene ormai al passato. Non è un caso se questo è accaduto. Il ceto politico della prima Repubblica era composto in modo ampio da professori universitari. Moro, Fanfani, Cossiga, Vassalli, Luigi Berlinguer, Spadolini erano tutte figure di primo piano che davano prestigio al ruolo e interpretavano una funzione politica, culturale e anche sociale. Oggi in Parlamento i professori sono assai pochi, mentre sono prevalenti rappresentanti di ruoli e professioni che si sono formate, spesso, fuori dell’Università. Processo che si è accompagnato ad una progressiva perdita di prestigio sociale dei professori universitari per una serie di ragioni: decadenza dell’istituzione a partire dagli anni settanta del '900; progressiva crisi del personale universitario che non ha saputo riprodursi con saggezza e lungimiranza; il costituirsi di percorsi formativi legati alle nuove tecnologie informatiche che spesso prescindono dall’Università. Fenomeni degenerativi accentuati per responsabilità delle classi dirigenti che non hanno dedicato all’Università e in genere alla scuola l’attenzione che dovrebbe avere per esse una Nazione che voglia avere un ruolo nel mondo. La seconda premessa riguarda l’enfasi che questo governo e il suo presidente del consiglio mettono sul «ricambio generazionale ». Del resto, questo è stato il cavallo di Troia con cui Renzi è riuscito ad imporsi prima nel Pd, poi alla guida del governo, interpretando e volgendo a suo vantaggio il “risentimento” che si muove nelle viscere del paese.Èper questo, credo, che oggi i professori universitari sono nel mirino. Dispongono di poco prestigio, non hanno rappresentanti in Parlamento, sono ormai percepiti come un ceto inutile o corrotto e lavorano in una istituzione pubblica che larga parte delle classi dirigenti nazionali considera inutile e da rottamare in nome del “privato”. Ma le cose sono, naturalmente, più complesse di quanto appaia dalla polemica quotidiana. Distingue frequenter, dicono i gesuiti: molti professori universitari, anche con diversi anni di servizio, lavorano con risultati di valore internazionale; formano nuove generazioni di studiosi; a livello europeo sono fra quelli che ottengono maggiori finanziamenti. Ma di questo non si parla. Essi vanno “abbattuti” colpendo nel mucchio come in un film di John Ford, senza fare prigionieri. E vanno spediti a casa, cioè messi in pensione come prevede la legge sulla Pubblica amministrazione in discussione alla Camera. Se hanno quaranta anni di servizio, e 65 anni, via: l’amministrazione di appartenenza ha la possibilità di pensionarli, senza criteri obiettivi di riferimento o motivazioni generali. Solo sulla base del proprio “libero arbitrio”, ameno che su questo punto delicatissimo non passi, come pare, un emendamento correttivo. L’università però non è un affare dei professori. È un grande problema del paese. E quando si prendono decisioni di questo tipo occorrerebbe farlo secondo i principi dell’«etica della responsabilità» come direbbe Weber; valutando cioè gli effetti che a livello di sistema essi producono. I problemi dell’Università italiana non si risolvono con provvedimenti come questi, anzi si aggravano; molte sedi sarebbero messe in ginocchio da questa legge perché il ricambio della docenza è un processo complesso, e non un gesto demagogico. Sono tutti punti sui quali ha insistito con chiarezza esemplare, in un suo documento, il presidente del Comitato Nazionale Universitario, ma senza trovare ascolto. E non si capisce che con decisioni come queste si finisce con il colpire - ed è un fatto inaudito - un principio centrale della civiltà liberale come la libertà di insegnamento, aprendo anche complessi problemi di ordine costituzionale. Vorrei essere chiaro: non ho alcuna intenzione di difendere i professori universitari, di cui conosco, per esperienza diretta, deficienze e limiti. Mi sono totalmente estranee preoccupazioni di tipo corporativo o sindacale: del resto, se mai è esistita una corporazione dei professori oggi non c’è più. Pongo un problema politico di ordine generale: gli effetti di questa legge saranno opposti a quelli propagandati. Chi lavora nell’Università sa bene che con scelte di questo tipo si rischia di interrompere per periodi non brevi l’attività anche in settori importanti e a volte strategici. Non entro qui in analisi specifiche. Mi limito a dire che il nostro sistema universitario rischia di entrare in una situazione di crisi, e di stallo, che danneggerà sia la formazione che la ricerca, senza vantaggio per nessuno, anzi con danni per la Nazione. Questo non vuol dire che non bisogna intervenire con severe e rigorose politiche riformatrici anche per il personale: senza di esse non c'è futuro per la nostra Università; ma bisogna partire dalle basi con un piano organico. Pensare di risolvere un problema così grave mandando i professori in pensione qualche anno prima è pura demagogia; serve, appunto, a intercettare il “risentimento”. Governare significa invece programmare, e questo vale anche per l’Università. Mi sono deciso a scrivere questo articolo per due motivi. Anzitutto perché ci sono momenti in cui non si può tacere: «per scienza e per coscienza». Parigi non vale una messa, mai; mentre una legge, sia pure in extremis, può essere cambiata. Lo scrivo però anche per un altro motivo: vorrei dire al presidente del consiglio che non si può governare un settore fondamentale della Nazione a colpi di maglio. È vero, l’Italia ha bisogno di grandi trasformazioni, e quindi di riforme radicali e anche di un forte «ricambio generazionale » nell’Università, ma questo deve essere un mezzo, non il fine. «Chi non s’arrischia non acquista», dice un proverbio toscano. E il presidente del consiglio - che io rispetto per il lavoro che sta facendo - ha dimostrato di conoscerlo assai bene in tutta la sua brillante carriera politica. Giusto, a patto di non buttare, come può avvenire in questo caso, «l’acqua col bambino»


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