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Università, no ad Atenei di serie B ma servono «poli di attrazione scientifica»

Il sistema universitario italiano è di buona qualità ma la dispersione di ricercatori e risorse diminuisce la sua attrattività internazionale

19/03/2021
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Corriere della sera

«La ricerca ad alto livello non può essere distribuita uniformemente tra università» e i finanziamenti vanno concentrati sulle università migliori o «eccellenti». È la sintesi della tesi di Tito Boeri e Roberto Perotti, come l’hanno esposta nei giorni scorsi. Prima ancora di discutere i pro e i contro bisogna chiedersi se in Italia esiste un gruppo di «atenei di eccellenza» su cui potrebbe avere senso concentrare i fondi in quanto si distaccano nettamente dagli altri per qualità complessiva della ricerca, come avviene in Inghilterra, paese che Boeri e Perotti prendono a confronto. La risposta è no, sia se ci basiamo sui risultati della Valutazione della Qualità della Ricerca (Vqr), sia se guardiamo ai vari ranking internazionali di università. In Italia i prodotti di qualità scientifica più elevata non sono concentrati in pochi atenei di punta (come quelli del Golden Triangle inglese), ma sono relativamente dispersi fra molte sedi. Il fatto che la migliore ricerca sia frammentata fra diversi atenei ci aiuta a spiegare come mai le università italiane risultino pressoché assenti fra le top 100 in tutti i ranking internazionali basati su produttività e impatto della ricerca, mentre sono molto numerose (più di quelle francesi e spagnole) fra le top 500 o le top 1.000 (per maggiori dettagli su dati e analisi si rimanda a questo video).

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Una possibile spiegazione sta appunto nell’elevata dispersione dei migliori ricercatori italiani fra atenei diversi, che fa sì che molti atenei risultino di buona qualità scientifica, ma (quasi) nessuno «eccellente» attività. Dobbiamo rallegrarci di questa qualità scientifica diffusa anziché concentrata? Sì e no. Naturalmente, che la performance complessiva del sistema universitario italiano sia mediamente buona non può che essere valutato positivamente. Ma Boeri e Perotti hanno ragione a dire che nella ricerca «contano le economie di agglomerazione», in cui è la concentrazione dei migliori ricercatori che può consentire grandi passi in avanti. Inoltre, in un contesto internazionale sempre più competitivo, la bassa concentrazione dei migliori ricercatori in alcune sedi si rivela penalizzante perché si traduce in bassa attrattività di fondi e di cervelli. Molti dei soggetti che oggi si rivolgono a un’università – dallo studente internazionale al ricercatore che può decidere dove utilizzare un finanziamento per la sua ricerca, dall’accademico leader nel suo campo all’impresa disposta a creare un joint lab con un ateneo, fino al venture capital disponibile a investire in uno spin-off – non si accontentano più della buona qualità di quell’università, se possono accedere senza vincoli e costi rilevanti a un’altra che si trova al vertice in termini di reputazione e prestigio.

Risultano perciò avvantaggiati quei sistemi universitari che possiedono dei poli di attrazione scientifica internazionalmente riconosciuti come «centri di eccellenza», o che hanno cercato di costruire dei veri e propri «campioni nazionali». Come si può fare allora a costruire dei poli di attrazione senza rinunciare alla buona qualità scientifica media dei nostri atenei? La risposta è che si può cercare di valorizzare (anziché appiattire) le differenze esistenti all’interno di uno stesso ateneo. Un primo modo per farlo è quello di riconoscere e incentivare una specializzazione di ciascuna università in alcune aree scientifiche, cioè una differenziazione interna a ciascun ateneo per quanto riguarda l’intensità e la qualità della ricerca. Un secondo è quello di prendere atto della pluralità di funzioni che le università sono oggi chiamate a svolgere (dalla formazione di base a quella specialistica, dalla ricerca pura a quella applicata, dal contributo allo sviluppo territoriale alla presenza in network internazionali) e di valorizzare questa pluralità premiando quelle strutture universitarie che svolgono al meglio alcune di queste funzioni anche a scapito di altre, anziché quelle che hanno una performance media su tutte. Nessun ateneo, del resto, può svolgere tutte quelle funzioni allo stesso livello di qualità in tutti i campi del sapere. Mentre la possibilità di dare vita ad alcuni poli di specializzazione è aperta alla maggior parte degli atenei, in cui esistono nicchie potenzialmente molto competitive.

Si tratta dunque di valorizzare queste differenze. La pluralità ed eterogeneità delle aree scientifiche su cui ciascun ateneo può provare a costruire dei poli di attrazione consentirebbe una certa distribuzione su tutto il territorio nazionale, frenando la tendenza a creare pochi atenei di serie A collocati nelle aree più dinamiche del Paese e una maggioranza di teaching universities nelle zone più periferiche. Inoltre, l’effetto indotto di una tale strategia sarebbe quello di migliorare fortemente anche l’efficienza nella formazione di capitale umano. Le strutture interne di un ateneo che realisticamente non possono diventare poli di attrazione scientifica potrebbero infatti essere fortemente incentivate, con quote premiali non inferiori a quelle destinate ai poli, a specializzarsi nella formazione professionalizzante, nella riqualificazione degli adulti e nei servizi al proprio territorio – tutte attività poco praticate dai nostri atenei e di cui il Paese ha invece enorme bisogno.
* Professore emerito di Sociologia economica, Università di Milano

Riceviamo la risposta da Tito Boeri e Roberto Perotti:
«Siamo contenti che il nostro intervento abbia sollevato interesse. Ma la premessa dell’articolo di Regini è errata. Regini riassume il nostro intervento così: “i finanziamenti vanno concentrati sulle università migliori o «eccellenti»”. In nessuna parte del nostro articolo sosteniamo questo. Poiché i dati disponibili sono per ateneo, ci limitiamo a documentare che 1) il VQR ha la stessa concentrazione delle rette e della quota base tra atenei e 2) la piccola parte distribuita ai dipartimenti di eccellenza è molto più concentrata del VQR. Scriviamo “Una parte dei finanziamenti statali ad un dipartimento o ateneo deve essere basata sulla qualità della ricerca”....”questa quota premiale, se assegnata seriamente, sarà necessariamente concentrata su alcuni poli di eccellenza.”....” Gli atenei e i dipartimenti non d’eccellenza avranno sempre un ruolo importante”. Quindi tutto quello che scriviamo è consistente con la proposta di Regini, che vuole dipartimenti (e non atenei) di serie A e B. Anche noi. Questo risulterà presumibilmente in atenei di serie A. A-, B+ e B».


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