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Università e prof anziani, l’esperienza da non disperdere

la sacrosanta esigenza di ringiovanire i ranghi dell’università italiana non sarà soddisfatta dalla messa al muro con ludibrio dei loro maestri settantenni

09/11/2013
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Il Messaggero


Eugenio Mazzarella
«A 70 anni i professori universitari, se fossero generosi e onesti, dovrebbero andare in pensione». Per fare posto ai giovani ricercatori, soprattutto se da far rientrare dall’estero, i cosiddetti “cervelli in fuga”, per i quali sarebbe poco attrattivo tornare da ricercatori, e che bisognerebbe far tornare con posizioni idonee di professore. Non so francamente il ministro Carrozza quale messaggio volesse lanciare, con questa dichiarazione a Radio 24, ai giovani ricercatori e all’università italiana. Per la stima che ho del ministro ne sono francamente stupito. Perché quello che ho inteso io è nei fatti un’irriconoscente delegittimazione di un’intera generazione di docenti che hanno speso una vita nell’università italiana; tutti ascritti al ruolo di “baroni”, quando nell’università italiana ci vuol ben altro che una cattedra e 70 anni per averne lo status. E insieme un’ascrizione a figli di un dio minore dei tanti giovani ricercatori di talento rimasti in Italia non meno bravi di chi è andato all’estero. Il primo consiglio che mi sentirei di dare è un’accorta valutazione delle equipollenze dei titoli e del valore intrinseco dei cervelli “tornanti”, di cui al ministro non dovrebbe essere ignoto qualche abuso passato. E di stare attenti al rischio che mentre si delegittima da anni, per confusione e insipienza normativa, il canale di selezione ordinario dei docenti universitari (abilitazioni e concorsi) non si faccia prevalere una sorta di “esternalizzazione” al sistema nazionale universitario della selezione del suo personale. Insomma, stiamo attenti che l’antico concetto della chiamata per chiara fama, per il passato di difficile uso, per altro non sempre limpido, non venga sostituito dalla chiamata di imbecilli di ottime relazioni (baronali) nascosti dietro qualche opportuno fiore all’occhiello di questo o quel giovane ricercatore di effettivo valore.
Ma il punto che mi preme segnalare al ministro, più che note spicciole di sociologia accademica, è che la sacrosanta esigenza di ringiovanire i ranghi dell’università italiana non sarà soddisfatta dalla messa al muro con ludibrio dei loro maestri settantenni. La questione è che ad oggi, grazie ai numeri del turn over bloccato da anni, per fare entrare un giovane ricercatore di 35 anni bisogna pensionare due settantenni e mezzo, cioè 175 anni di esperienza didattica e scientifica; e nel caso si volesse un ingresso di un ordinario di 35 anni gli anni di esperienza didattica e scientifica da rottamare salgono a 350! Se il ministro terrà fede all’enunciato di portare il turn over dal 20% al 50% questa amara partita doppia vedrà appena dimezzati i numeri, non altro. Tutto questo è figlio di scelte scellerate della legge Gelmini, e delle manovre finanziarie che le hanno accompagnate; di una ristrutturazione al ribasso del sistema universitario nazionale che gli ha tolto negli anni tra il 15 e il 20% delle risorse reali, già scarse. E sì che come sa ogni analista serio sull’università italiana si può ancora investire, per la qualità intrinseca del sistema nonostante tutto, dove se l’indice di produttività scientifica viene riportato alla proporzione delle risorse impegnate le classifiche internazionali restano ancora lusinghiere. Il fatto è che le scelte di questi anni sull’università riflettono un’idea di Paese ripiegato su sé stesso, che più che un rilancio, cerca il pareggio di bilancio dismettendo e alienando attività. E’ agli atti parlamentari della scorsa legislatura l’illustrazione in aula, svolta per l’allora opposizione da chi scrive, di quello che sarebbe accaduto con la legge Gelmini.
Una picchiata in giù degli organici nell’ordine tendenziale del 40% del valore di partenza del 2008 (superiore alle 60.000 unità), per giunta scaricata in massima parte sul Sud. A “coprire” questa realtà di asfissia economica e disfunzionalità normativa, un furore ideologico su merito e valutazione, di cui non pochi analisti già fanno con argomenti validi un caso di studio su come “non” si promuove il merito e la valutazione in un sistema che voglia recuperare efficienza. Per contrastare l’insincerità di tutta la strategia presunta di rilancio dell’università della Gelmini, chi scrive propose un emendamento di salvaguardia. Che cioè alla fine della ristrutturazione con cui si voleva ridare efficienza e competitività europea all’università italiana ci fossero nel sistema nel 2020 gli stessi ruoli, già inferiori alle medie europee, del 2008, più l’istituenda fascia dei ricercatori a tempo determinato che a quei ruoli dovevano fornire i docenti. Una clausola di indirizzo “politico” della ristrutturazione cui si poneva mano, perché non fosse una dismissione neppure razionalizzata come sarebbe accaduto. Credo che il punto politico sia lì, e da quella richiesta a questo e ai prossimi governi l’università italiana, se crede in se stessa, deve ripartire.