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Unità-Ricerca scientifica? No, meglio aziendale...

Ricerca scientifica? No, meglio aziendale... di Nicola Tranfaglia Ci sono argomenti che, a prima vista, possono apparire settoriali ma che non riguardano soltanto gli addetti ai lavori bensì tutt...

13/04/2002
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l'Unità

Ricerca scientifica? No, meglio aziendale...
di Nicola Tranfaglia

Ci sono argomenti che, a prima vista, possono apparire settoriali ma che non riguardano soltanto gli addetti ai lavori bensì tutti i lettori perché influiranno sul futuro del nostro paese, sullo sviluppo economico e culturale, sulle possibilità e prospettive di inserimento nel mondo del lavoro delle nuove generazioni.
È il caso appunto delle "Linee guida per il piano nazionale della ricerca" che il dinamico ministro Moratti presenta oggi 12 aprile e che individua le priorità del sistema e le scelte che il governo ha fatto per migliorare lo standard della ricerca nazionale e il suo adeguamento al quadro europeo e mondiale.
Il documento, licenziato un mese fa, è assai chiaro e significativo e vale la pena sottolinearne gli aspetti essenziali sperando che si sviluppi un dibattito nella pubblica opinione, oltre che tra gruppi e persone particolarmente interessati.
Diciamo subito che il governo Berlusconi nella sua prima legge finanziaria ha tagliato i fondi pubblici per la ricerca destinando ad essi soltanto l'0,6% del Pil di fronte a percentuali che nel continente sono vicini o superano l'1%.
Il primo segnale è stato dunque negativo, come è avvenuto peraltro per il Fondo di funzionamento ordinario destinato alle università che non è cresciuto malgrado sia stato l'anno di prima applicazione della riforma didattica ed ha creato non pochi problemi alla maggior parte dei nostri atenei.
Ora il ministro spiega in quale direzione vuole andare, dopo aver ricordato - a chi non lo sapesse - che il sistema delle imprese con meno di cinquemila addetti che sono la maggioranza dedica una percentuale minima, solo il 3,2 per cento del totale della ricerca industriale.
Non si dice nel rapporto quanto provenga a quel sistema dalla grande impresa ma sappiamo da tempo che anch'essa collabora in maniera limitata, per ragioni strutturali ma anche di altro genere, culturali, al sistema complessivo della ricerca.
Ma, leggendo il seguito delle "Linee guida", si può capire con chiarezza come l'obbiettivo principale del piano sia quello di collegare la ricerca universitaria in maniera assai stretta con la ricerca industriale finanziando soprattutto i progetti che raggiungano risultati eccellenti "nell'attività di ricerca fondamentale applicata, industriale - in partnership con le imprese e nel trasferimento tecnologico".
Inoltre si parla apertamente di "finalizzazione dei corsi di dottorato anche per la formazione di personale specializzato per l'industria, l'agricoltura, i servizi avanzati".
In altri termini si dice che, poiché da una parte il sistema industriale italiano è destrutturato essendo composto per la maggior parte di imprese piccole o medio-piccole e, dall'altra, il sistema universitario è caratterizzato "da un eccesso di autoreferenzialità che impedisce un'apertura ai problemi della società e un raccordo sistematico e non frammentario con il mondo della produzione", il rimedio consisterà nel condizionare la ricerca scientifica agli obbiettivi del mondo industriale, dell'agricoltura e dei servizi".
Che è anche, diciamolo pure, un sistema abbastanza accorto per far fare alle imprese la ricerca che non vogliono pagare con i soldi pubblici senza quella forte tendenza parassitaria dello Stato che ha a lungo caratterizzato, per ragioni più volte storicamente indagate, l'atteggiamento degli imprenditori nel nostro paese.
Con questo non si vuol dire affatto, sia chiaro, che la ricerca scientifica non debba tener conto del sistema produttivo ma soltanto che non può dipendere soltanto da esso, devo poter guardare avanti a vantaggio peraltro dello stesso sistema produttivo nazionale.
Se poi andiamo a vedere quali sono i settori di priorità individuati dal Piano abbiamo un'ulteriore, convincente dimostrazione degli obbiettivi perseguiti dal ministro.
Nel senso che l'area umanistica scompare quasi dalla priorità, pur essendo l'Italia uno dei paesi europei nei quali la ricerca umanistica è stata sempre più intensa e avanzata: c'è soltanto l'indicazione dei beni culturali che riguarda in una certa misura settori umanistici e scientifici.
Ma è ancora più significativa la scelta degli altri settori di priorità che sono quelli dei sistemi di produzione, dell'informatica, dell'ambiente, dell'agroalimentare e della salute: in altri termini, all'interno delle scienze, esclusivamente quelle che hanno una ricaduta immediata nel sistema complessivo della produzione, lasciando completamente da parte le innovazioni tecnologiche e tutti quei settori che, per così dire lavorano nel medio e lungo periodo per aprire nuovi orizzonti e non lasciare l'Italia in una situazione di perpetua subalternità e dipendenza dai paesi (anzitutto gli Stati Uniti e il Giappone) che all'innovazione dedicano l'attenzione necessaria.
Ed è questo l'aspetto più grave e preoccupante delle "Linee guida" giacché, proprio sul piano della ricerca, e di quella pubblica in particolare, si giocherà nei prossimi anni il destino del nostro paese che potrebbe diventare un protagonista se destinasse alla ricerca risorse maggiori al problema e se puntasse, in una parte non trascurabile, su settori nuovi o comunque sganciati dagli obiettivi più o meno immediati delle imprese e del sistema produttivo.
C'è invece, come nella scuola e in ogni altro campo, la preoccupazione ossessiva a favore delle imprese private (quelle stesse che appaiono sostanzialmente assenti sul piano della ricerca industriale)e, nello stesso tempo, uno sguardo miope, neonazionalistico lo chiamerei, al futuro e alle prospettive di sviluppo internazionale del paese.
Se a questo si aggiungono le contraddizioni crescenti e scandalose in campo universitario si ha un'immagine più attendibile di quel che sta succedendo.
I lettori e i telespettatori italiani non sono stati informati del fatto che il governo Berlusconi, da una parte, annuncia da parte del ministro Moratti un sistema più severo (ben venga!, diciamo noi che abbiamo più volte criticato l'attuale!) sui concorsi universitari e una vaga retromarcia sulla riforma in appoggio ai lamenti dei soli giuristi-avvocati più qualche medico e, dall'altra parte, attraverso la cosiddetta Tremonti bis (legge 383 dell'II ottobre 2001), immette automaticamente ope legis in ruolo, come professori universitari di prima fascia, una trentina di magistrati e dirigenti che insegnano nella Scuola Centrale Tributaria in barba a quel binomio didattica-ricerca che dovrebbe costituire il nucleo essenziale di ogni università moderna.
L'opposizione parlamentare, a quanto pare, non si è accorta del colpo ma quel che è più grave è che quando ne ha parlato qualche settimana fa Alessandro Figà Talamanca sul "Sole 24 ore", i giornali e le televisioni hanno fatto finta ancora una volta di non vedere e di non sentire.
A proposito della libertà di informazione e della democrazia liberale nel nostro beato paese...


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